Presentando il suo nuovo saggio alla nutrita platea del Circolo dei Lettori di Torino, Gino Castaldo discute la dicotomia “per eccellenza” della cultura musicale contemporanea.
_di Alberto Vigolungo
Beatles o Rolling Stones? Questo è il dilemma, almeno per le generazioni successive all’esplosione del fenomeno che cambiò per sempre il corso della musica popolare. Ma nei favolosi sixties, per fan e appassionati, questa contrapposizione, divenuta in seguito quasi monolitica, non aveva ragione di esistere. Parte da questa considerazione il viaggio intrapreso da Gino Castaldo in Beatles e Rolling Stones – apollinei e dionisiaci, ultimo arrivato nella nuova collana VS di Einaudi: “La divisione in pubblici arriva dopo i Sessanta: se volevi il live andavi con gli Stones, se invece volevi restare a casa, la sera, e sognare, mettevi Revolver”, spiega, durante l’incontro tenutosi mercoledì 11 maggio nell’elegante cornice della Sala grande del Circolo dei Lettori di Torino. Accompagnato da una raccolta di videoclip e immagini dei loro concerti, il noto critico, giornalista e conduttore radiofonico ripercorre le traiettorie delle due band, emblema assoluto dell’”Eldorado musicale” di un’epoca che non avrebbe più conosciuto paragoni, almeno ai giorni nostri, evidenziandone convergenze e divergenze.
Negli anni ’60, Beatles e Rolling Stones incarnano due differenti immagini di ribellione, facendo convergere le molteplici tensioni che caratterizzano il fermento della cultura giovanile di questo periodo. Non si può non riconoscere come i due gruppi rispecchino effettivamente “la celebrazione di qualità e aspetti della vita un po’ differenti”. Per questo motivo, nella descrizione del fenomeno da loro rappresentato, Castaldo ricorre alle categorie nietzschiane dell’”apollineo” e del “dionisiaco”, alle quali corrispondono, rispettivamente, la “disciplina” dei Beatles (tanto nello studio della propria immagine pubblica quanto nel rigore compositivo) e l’”eccesso” degli Stones, nel loro offrirsi al pubblico così come nell’ispirazione della loro musica. “Due differenti visioni della musica e del mondo” semplificate dalla stampa popolare nell’opposizione tra “bravi ragazzi” e “cattivi ragazzi”. A livello musicale, per entrambi il punto di partenza si chiama America: “I Beatles suonano rock’n’roll e soul, mentre i Rolling Stones sono dichiaratamente blues”.
In ogni caso, al di là delle “visioni” da loro veicolate, non c’è dubbio che le due band leghino la propria arte (e comunicazione) ad un’immagine forte, facendo letteralmente scuola. Sotto questo aspetto, i Beatles si rivelano maestri, non solo per gli Stones: nelle loro prime esibizioni, i Fab Four elaborano una rappresentazione attentamente calibrata del concetto di gruppo, che passa anche attraverso un preciso codice vestimentario (in questa fase, John, Paul, George e Ringo indossano abiti uguali), affermando così “l’idea allora rivoluzionaria del fare arte in gruppo”. In altri termini, è con loro che l’idea di gruppo assume la rilevanza che noi le attribuiamo correntemente.
Ma il “primato” dei quattro ragazzi di Liverpool è ben più ampio, e si riflette innanzitutto nel campo della composizione e della produzione musicale: “Dal punto di vista tecnologico, i Beatles arrivano prima, in tutti i sensi”. Ed è proprio alla luce della rapida conoscenza accumulata nello studio di registrazione che si spiega la progressiva complessità della loro musica, che da un certo momento in poi non sarà più conciliabile con la forma del live.
All’inizio erano i Beatles, insomma. Ma gli Stones irrompono sulla scena dei primi anni Sessanta con una forza non meno dirompente. Anche in questo caso, componente visiva e musicale si combinano perfettamente andando a marcare un’identità distinta, l’icona di una ribellione che si mostra in tutta la sua carica aggressiva e sensuale. L’operazione intentata dal manager della band (“che inventa per loro, in modo geniale, l’immagine dei ‘cattivi ragazzi’”), fissa poi definitivamente uno dei caratteri della più celebre contrapposizione dell’immaginario rock. Tuttavia, mentre questa dialettica comincia a delinearsi, tra i Fab Four e il gruppo creato intorno al talento istrionico e multiforme di Mick Jagger si crea un rapporto speciale, fatto di collaborazioni (I Wanna Be Your Man, primo pezzo inciso dai Rolling Stones, è firmato dalla coppia Lennon/McCartney) e frequentazioni più o meno “sotterranee”. Questa relazione, instaurata fin dai primi tempi e che coinvolge anche altri grandi artisti, rappresenta una vera e propria costante nell’itinerario delle due band, ed è testimoniata in una serie di prove apparse anche a molti anni di distanza: una delle più sorprendenti si osserva in una scena del film Rock and Roll Circus, rimasto a lungo inedito, che mostra il supergruppo formato da John Lennon, Eric Clapton, Keith Richards e Mitch Mitchell (batterista nella Jimi Hendrix Experience) alle prese con una versione di Yer Blues.
Intanto, la storia della musica moderna sta per accelerare, muovendo in direzione di un’epoca dopo la quale nulla sarà più davvero come prima. La metà del decennio si pone in questo senso come uno spartiacque. Spiega Castaldo: “Con Highway 61 Revisited di Bob Dylan a dettare la svolta elettrica, nel 1965 la cultura rock prende la sua forma definitiva: i Beatles escono con Help!, mentre gli Stones presentano il loro primo grande successo, cantando quello che tutti i giovani di allora vogliono sentirsi dire [(I Can’t Get No) Satisfaction]”.
Interpretando fin dall’inizio la spinta alla ribellione e al cambiamento che segna in profondità lo zeitgeist del proprio tempo, è a questo punto che i percorsi delle due band si allontanano in modo evidente. Più i Fab Four spingono in là i limiti della sperimentazione, riscrivendo i canoni della canzone popolare e allontanandosi irrimediabilmente dal live, più i Rolling Stones trovano il loro terreno nel concerto, “tanto da essere ancora lì, dopo 50 anni”. A proposito di questa forma della fruizione musicale, si può davvero parlare di un “prima” e un “dopo” gli Stones. “Quello che noi oggi consideriamo come ‘concerto rock’ deve molto a loro”, commenta l’autore del libro, ricordando l’esperienza di un live capace di attirare un milione di appassionati sulla spiaggia di Copacabana (2006).
Dopo il Live at Shea Stadium i Beatles decidono invece di abbandonare la forma-concerto (affidando la loro presenza pubblica al videoclip) per perseguire un unico obiettivo: espandere al massimo grado il territorio della creazione formale, allora ostacolata nel live da importanti limiti tecnici. Si esibiranno ancora una volta nel 1969, sul tetto della sede della Apple Corps a Savile Row, quando la loro storia sarà ormai giunta al capolinea: l’ultimo colpo di scena, interrotto peraltro dalla polizia. Eppure, anche in questa svolta, il destino delle due band risulta intrecciato: sono proprio Jagger e compagni, presenti dietro le quinte di quel concerto del ‘65, i primi a rendersi testimoni di una nuova fase della carriera dei coevi, e a prendere atto del fatto che la musica dei Beatles ha ormai raggiunto livelli artistici inarrivabili.
Si inaugura così un triennio in cui i quattro di Liverpool traducono tutto il loro potenziale creativo in opere monumentali, dando forma compiuta alle loro intuizioni più estreme. “Tra il ’65 e il ’67 avviene qualcosa di incredibile, materia di studio nei decenni mai del tutto risolta”: protagonisti indiscussi, i Beatles, con brani che vanno da Paperback Writer a Strawberry Fields Forever. Qui gli Stones faticano a tenere il passo, pur consegnando capolavori come Ruby Tuesday, pezzo dalle forti tinte nostalgiche nella voce di un Jagger trasognato.
Ma se l’immagine dei Rolling Stones si stabilizza nel corso degli anni, rimanendo pressoché fedele a quella iniziale, lo stesso non si può dire dei coevi nati sulle rive del fiume Mersey. Accanto a questa evoluzione tanto repentina quanto sbalorditiva della loro arte, l’immagine dei Beatles subisce alcune trasformazioni. Sull’onda delle numerose teorie del complotto e contro-verità che si strutturano intorno a qualsiasi fenomeno di massa, nella seconda metà dei sixties i Fab Four iniziano così ad essere accostati anche all’immaginario legato al satanismo e alla sessualità esplicita. Così, la dimensione “maledetta” cui i Rolling Stones sono appartenuti fin dagli albori, con effetti davvero dirompenti sull’opinione pubblica del tempo (“Ricordo che il Jagger femmineo del videoclip di You Can’t Always Get What You Want mi sconvolse, avevo 15-16 anni…”, confessa Castaldo), sfacciatamente esibita in un pezzo come Sympathy for the Devil, tocca in questo periodo anche i Beatles, citati nei disegni deliranti di Charles Manson (che “firma” il teatro di uno dei suoi atroci delitti con la scritta Helter Skelter) e da chi afferma di scorgere, nella loro opera, messaggi occulti.
Al di là dell’immenso e inestimabile patrimonio musicale prodotto, l’unicità di questi due gruppi risiede certamente nel loro rapporto con il tempo, agli antipodi: se il mito dei Beatles, separatisi nel 1970, si riflette anche nella dinamica per cui ogni nuova notizia a loro collegata li riporta immediatamente alla stretta attualità, la leggenda (e la “maledizione”) degli Stones perdura nella loro capacità di infiammare ancora le platee di tutto il mondo, dopo più di mezzo secolo. In questo senso, ammette Castaldo, “gli Stones se la sono sempre dovuta sudare”.
L’aura “benedetta” che accompagna la poco più che decennale carriera dei Fab Four si manifesta persino nell’ultimo atto: “Come in una sceneggiatura perfetta, l’ultimo pezzo inciso dai Beatles è The Long and Winding Road, metafora malinconica della loro breve e intensa storia”, conclude il critico. I Rolling Stones non si fermeranno, stabili nelle loro gerarchie interne, inseguendo l’immortalità con il “sudore” di centinaia e centinaia di monumentali concerti in giro per il mondo. A quasi sessant’anni dalla loro rivoluzione, il firmamento della musica pop è ancora grandemente illuminato dalla luce di entrambi.