“Finalmente”, “si riparte”, “siamo tornati”. Da qualche giorno le pagine dei promoter, degli artisti e delle venue di tutta Italia si stanno riempiendo di questi bellissimi messaggi. Che liberazione, vero? Vedere che il nostro Paese non viene più depennato dai tour europei e che finalmente i nostri artisti e i nostri locali possono ricominciare a vivere. A Torino, uno dei punti riferimenti che scalpitava da tempo all’idea di riaprire le proprie porte era l’Hiroshima Mon Amour, che il 4 aprile affida ai Ministri il compito di far tornare a scorrere il sangue nelle vene.
_di Umberto Scaramozzino
I minuti che precedono il concerto non sono solo trepidante attesa e adrenalina, come in molti dei ritorni che si sono sovrapposti in questi ultimi giorni. Le persone che ripopolano l’Hiroshima Mon Amour di Torino si sorridono, si abbracciano, si incontrano di nuovo dopo essersi perse di vista. Viene da fermarsi e chiedersi ancora una volta come sia stato possibile non concedere qualcosa in più a questo mondo, fatto prima di tutto di persone che con questi club o ci vivono o ci alimentano l’anima. Se lo chiedono anche i Ministri, che scherzano sul fatto di poter tornare a non avere un “vero lavoro”, ma con un’amarezza che lascia poco spazio alle risate.
Sono passati sedici anni dal loro esordio, che nel 2016 veniva citato e celebrato ruggendo un indelebile motto: “I soldi sono finiti, ma i sogni no”. Da un lato la band che oggi sale sul palco sembra abbia sul groppone molti anni in più di quelli effettivamente trascorsi – ma in fondo vale per tutti noi, giusto? – e che alla tenacia di chi ancora lotta per i propri sogni sostituisce un po’ di nichilismo, condito di rabbia verso un sistema che si limita al singolo “fuori a mezzanotte” e brucia arte e artisti come fiammiferi.
Federico Dragogna ha parecchie cose da dire, ma tra una dichiarazione accorata e l’altra non risparmia neanche un briciolo di energia e si spende come farebbe un musicista a inizio carriera. Suda talmente tanto che, quando inizia a lanciare le bottigliette d’acqua alle prime file agonizzanti, viene da chiedersi se non sia più importante che sia lui a restare idratato. Non sono da meno Davide Autelitano e Michele Esposito, pronti a massacrare basso e batteria come agli esordi, in una perfetta alchimia nella quale trova spazio anche Marco Ulcigrai alla chitarra, pezzo importantissimo della scacchiera, ormai dall’inizio del Cultura Generale Tour.
La scaletta è un perfetto mix di quanto fatto dai Ministri nel corso di cinque lustri, andando a pescare da praticamente ogni release, con particolare attenzione ai pezzi più adatti allo sfogo di un ritorno così a lungo agognato. Ecco che spunta infatti una “Vicenza (La voglio anch’io una base a)” che serve a verificare come sono messe le giunture dopo tutto questo tempo, mentre una versione acustica – ma tutt’altro che gentile – de “Il bel canto” a sprigionare il Divi indiavolato. E partono così lo stage diving ed il crowd surfing, prima a corpo libero, poi sul tradizionale gommone.
Forse i nuovi pezzi dei Ministri non gireranno in radio come quelli di alcune altre band che, per ironia, sono nate da un loro costola. Forse non c’è grande margine per creare un nuovo pubblico per quel rock lì, ma se l’Hiroshima è pieno di gente felice più che di gente presenzialista è perché quei musicisti sono orgogliosi di stare sul palco, ma starebbero volentieri anche sotto, in mezzo a noi. La distanza tra chi suona e chi salta è minima ed è bello che sia così, dopo un periodo storico che dalle distanze è stato dominato e fagocitato.
Nulla di nuovo in fondo, è sempre la solita festa, solo un po’ più desiderata, dovuta, doverosa.