Quanto può essere profondo il vuoto di un uomo che non è riuscito a riconciliarsi con il proprio passato e che ha improvvisamente perso contatto con il presente? Damiano e Fabio D’Innocenzo tornano in sala con uno psicodramma dalle tinte horror, in un contesto borghese-provinciale decadente e popolato da esistenze solitarie. In concorso all’ultimo Festival di Venezia, America Latina entra nella mente di un libero professionista che si scopre aguzzino, come un perfetto racconto di cronaca nera.
_di Alberto Vigolungo
Da tempo, forse da sempre, Massimo Sisti prova un certo timore nei confronti della vita, un insuperabile senso di ritrosia che lo isola da persone e cose, come trattenuto da una forza misteriosa. Ma, all’apice della propria carriera professionale, il “buio” torna a bussare, più forte che mai: medico stimato, padre, proprietario di una villa, il protagonista si ritrova a contemplare angosce e fantasmi che, nel frattempo, hanno assunto dimensioni ancora più grandi. La deriva esistenziale di Massimo Sisti sfocia in un atto aberrante: il rapimento di una bambina, che nasconde nello scantinato di casa. Il suo distacco dalla realtà è tale che per l’uomo si tratta di una scoperta: la manifestazione esplicita di una mostruosità silente e profonda, e della malattia. Mentre il vuoto di memoria sfuma nella presa di coscienza di quanto commesso, sopraffatto dall’evidenza del male procurato, in un estremo tentativo di redenzione Massimo rivela tutto alla famiglia, che lo farà arrestare.
Dietro la storia di un insospettabile aguzzino, America Latina rappresenta soprattutto la storia di una resa dei conti con se stessi e il proprio passato, il naufragio di un uomo realizzato nelle sue aspirazioni borghesi che si sgretola – come suggerisce con eloquente forza comunicativa la locandina del film – nel vuoto che ha circondato la sua esistenza. Questa dinamica – narrativa e “psichica” insieme – inizia con la scoperta di una brutalità che il protagonista non associa immediatamente alla propria responsabilità, perché inaccettabile. Al cospetto di questa sofferenza inferta, reagisce istintivamente con il dubbio. Massimo dubita, oltre che di se stesso, di tutto ciò che lo circonda, identificando in un primo momento il colpevole con il suo migliore amico. Ma l’amnesia non può fermare un processo di elaborazione della colpa già in atto; al tempo stesso, il ritrovamento della bambina strappa l’ultimo velo di un’alienazione nella quale si è cercato di affogare rimorsi ed errori.
Alla base del disagio che segna il protagonista si riconosce un’insicurezza che gli deriva dal difficile rapporto con il padre, ma anche l’insopportabile percezione del declino morale dei tempi, che traspare dalle incomprensioni con la figlia maggiore; una percezione di decadenza che nutre i deliri di tanti killer contemporanei. Il film è largamente disseminato dei segni di questa crisi, tutti sublimati nella rappresentazione della casa di Massimo Sisti, metafora stessa della sua condizione: una villa moderna ma trascurata, dove le foglie si accumulano sparse e l’acqua della piscina è stagnante (non è un caso che diversi momenti di introspezione dell’uomo si fissino spesso su questo spazio esterno desolato). Proprio l’acqua emerge come simbolismo a cui si associano significati diversi, tutti negativi: lo sguardo fisso di Massimo sulla piscina di casa, illuminata da riflessi innaturali, rimanda infatti all’inafferrabilità del proprio male, così come l’acqua contenuta nella bottiglietta che l’uomo porge alla bambina rappresenta il tentativo di “lavare” ciò che non può essere cancellato. Ma, soprattutto, questo elemento simboleggia una colpa insostenibile, l’impossibilità di trovare una via d’uscita, come l’acqua che allaga per ore lo scantinato in cui è segregata la bambina.
Non meno rilevante, per il suo potenziale simbolico, Villa Sisti. In essa si fissa certamente il riflesso di un’angoscia, ma anche quello di una borghesia “spaesata”, non più in grado di celare le proprie ipocrisie dietro il simulacro di spettacolari apparenze. Da questo punto di vista, è come se Massimo si fosse ribellato, con il suo atto, ad un’inammissibile perdita di controllo, elemento sul quale la regia insiste in particolar modo, anche sotto il profilo degli espedienti filmici: la stessa ripresa “schizofrenica” di un aereo che si staglia nel cielo azzurro, nell’inquadratura d’esordio del film, può essere interpretata come il simbolo dell’incapacità del protagonista di afferrare la realtà. In fondo, il dubbio che attanaglia la coscienza di Massimo dopo la scoperta della bambina è lo stesso che lo ha accompagnato per tutta la vita, a partire dal rapporto con un padre sprezzante, così come con la sua famiglia composta da tre donne, diverse e bellissime. Un universo del quale l’uomo sente di non poter far pienamente parte.
Proprio nel modo in cui il protagonista guarda alla propria famiglia (spesso ritratta insieme, come un fronte impenetrabile per Massimo), nella distanza fra la sua apatia e l’intesa misteriosa delle sue care (ma anche fra “maschile” e “femminile”), si riflette un certo tema pirandelliano: il dissidio tra l’individuo ed il proprio contesto familiare, una delle tante facce dell’oppressione esercitata dalla società. Una dicotomia che, in America Latina, esplode dinnanzi all’ipotesi terrificante della rimozione (“Avete tutto: i soldi, la casa, la famiglia… Vi manca solo l’uomo!”), dopo che la moglie suggerisce a Massimo di recarsi da uno psicologo. È il preludio di una tempesta che rivela, una volta per tutte, l’abisso in cui l’uomo è precipitato, e nella quale viene toccato il vertice assoluto assoluto della costruzione drammatica del film.

Ma l’ultimo lungometraggio dei fratelli D’Innocenzo pone anche un interessante parallelo con uno dei film più discussi e citati degli ultimi anni. La scoperta di una sofferenza violentemente celata, improvvisa e spiazzante, è il trait d’union che lega America Latina a Parasite. Come nel pluripremiato film di Bong Joon-ho, infatti, la prova della colpa è nascosta sotto la casa di una famiglia abbiente; tuttavia, mentre in Parasite questa rappresentazione è strettamente correlata ad un elemento di satira sociale, in America Latina si colloca su un piano più individuale, presentandosi come lo specchio della coscienza del suo protagonista, la trasfigurazione di un male imperscrutabile. Ciò non impedisce, tuttavia, di riconoscere nel dramma di Massimo Sisti l’ombra di tanta cronaca nera; nella sua parabola si scorgono i peggiori incubi della provincia, il “buco nero” che si apre all’interno di un territorio che si considera ben noto, come peraltro rimarca il titolo stesso della pellicola.
Soprattutto nella caratterizzazione del personaggio principale e dell’atmosfera generale dell’opera, interpretazione e regia dialogano in un’intesa decisamente efficace. Alla qualità drammatica di Germano si combina la notevole maestria espressiva dei due registi romani, tanto sul piano filmico quanto su quello profilmico, nella rappresentazione di un mondo al collasso. La condizione del protagonista è così sottolineata in suggestive dialettiche figura/ambiente, catturata in primi piani su cui si disegnano sovrimpressioni visive all’insegna del blu (ecco ritornare l’elemento acquatico), enfatizzata da un uso delle luci quasi espressionista, talvolta kubrickiano, da colori che variano dal rosso al verde (tratto cromatico che diventa il vero e proprio “marchio” visivo del film), e dalle musiche astratte dei Verdena.
Interrogandosi sul rapporto tra bene e male, e sul confine di queste due dimensioni, America Latina mette anzitutto in scena la lotta di un uomo con se stesso e i propri fantasmi, la cui condizione trova piena espressione nelle mimiche di Elio Germano, ormai l’interprete italiano per eccellenza di ruoli fragili e tormentati (Il giovane favoloso, 2014; Volevo nascondermi, 2020). E lo fa senza cedere ad alcun pietismo.
Per le tematiche già evidenziate, il film dei fratelli D’Innocenzo risente certamente dell’influenza di un’opera come Dottor Jekill e Mr. Hyde, archetipo di tutti i romanzi che affrontano il problema del “doppio”. I temi sono gli stessi del romanzo di R. L. Stevenson; cambia il contesto, che non è quello della Londra vittoriana e di quel moralismo in risposta al quale sono scaturiti alcuni dei più grandi capolavori letterari del XIX secolo, ma quello della desolata provincia italiana dei giorni nostri. È Latina, ma potrebbe essere ovunque; allo stesso modo, il protagonista appare come il collage di decine di ritagli di cronaca, tanto che quella di Massimo Sisti potrebbe essere benissimo l’ennesima storia di “Chi l’ha visto?”.