Il silenzio di Don DeLillo: nell’abisso dell’oblio tecnologico

Cinque personaggi in un appartamento a Manhattan, un devastante blackout, un grande evento sportivo che prosegue nel silenzio dei media. L’ultimo libro di Don DeLillo prova ad immaginare lo scenario di un futuro che è già presente, di una realtà segnata da tutte le crisi più recenti.

_di Alberto Vigolungo

La natura del legame che l’essere umano stabilisce con la tecnica e la sua fenomenologia hanno sempre interessato Don DeLillo. Se ne ritrovano tracce importanti fin da Rumore bianco (1985), in cui la questione si lega a doppio filo con il tema del consumismo, e ovviamente in quel capolavoro della letteratura contemporanea che è Underworld (1997), in cui il senso di un’apocalisse incombente è calato in una dimensione storica potentemente definita, riflessa in particolare nell’epopea delle missioni spaziali e degli esperimenti nucleari che ha attraversato la Guerra fredda. 

Da magistrale narratore delle ansie della civiltà contemporanea, l’autore americano ha dedicato spazi sempre più ampi della sua speculazione a questa tematica, guardando una volta di più  ai mondi della fantascienza e della distopia. Da questo punto di vista, DeLillo prosegue con il suo nuovo lavoro sulla linea del romanzo precedente, in cui il tema “postumano” assume già un peso significativo. Mentre in Zero K (2016) questa dialettica si consuma in un orizzonte (utopico?) di ricerca dell’immortalità, nell’ultimo Il silenzio (tradotto da Einaudi un anno dopo la pubblicazione in patria) assurge ad una dimensione assoluta, nella forma di un oblio che sgretola le residue certezze di un’umanità assopita nel sogno di un progresso inesauribile. Il contesto coincide esattamente con una data vicinissima, il 2022, e con uno degli appuntamenti più rilevanti dello sport mondiale: il Super Bowl, la finale del massimo campionato di football americano capace ogni anno di catalizzare l’attenzione di milioni di spettatori. Dinnanzi a questo grande “rito nazionale” in cui si celebrano gli idoli della cultura popolare statunitense, il collasso delle reti informatiche su vasta scala assume un valore ancora più incisivo e, se possibile, spaventoso. 

L’opera intreccia due linee narrative che si fondono presto in un’unica storia, e un’unica esperienza. In volo sull’Oceano Atlantico, di ritorno da un soggiorno a Parigi, i turisti americani Jim Kripps e Tessa Berens subiscono le conseguenze di un incidente provocato dall’immane blackout, e dal quale si salvano miracolosamente. A terra, nel loro appartamento di New York, Diane Lucas e Max Stenner si apprestano a seguire, insieme ad un giovane ospite, il Super Bowl, quando lo stesso cortocircuito oscura il loro teleschermo: in questa situazione “disturbante” di silenzio improvviso e indotto, la donna approfondisce con il suo ex allievo Martin Dekker una misteriosa interazione (insieme metafisica e sensoriale) rispetto alla quale il marito si sente estraneo, dedicandosi unicamente alla contemplazione dello schermo nero, che per lui assume le proporzioni di un baratro imperscrutabile. Dopo aver lasciato la clinica dove erano giunti insieme agli altri passeggeri e aver preso coscienza del problema, Jim e Tessa raggiungono la casa degli Stenner, come previsto, finendo per unire le loro angosce e  per vivere, nello stesso spazio, la portata del dramma.

Pur condividendo fisicamente uno spazio, che assume i connotati di un rifugio temporaneo (per nulla rassicurante, ma ove sopravvive comunque una possibilità di scambio, di discussione dei fatti), i cinque personaggi sono immersi in una condizione di sostanziale incomunicabilità, tanto che nelle loro battute astratte e fredde constatazioni sembrano rivolgersi soprattutto a se stessi.

“Forse ognuno di quegli individui rappresentava un mistero per l’altro, per quanto il loro legame potesse essere stretto, ognuno di loro era racchiuso nella propria individualità in modo così naturale da sfuggire a una definizione conclusiva, a una valutazione immutabile da parte degli altri presenti nella stanza?

Max mangiava con lo sguardo fisso sullo schermo; dopo aver finito, mise giù il piatto e continuò a guardare.”  

La narrazione risulta profondamente intrisa di questa dinamica “teatrale” accentuata dalla centralità di un luogo, l’appartamento di Max e Diane, il quale, perdendo la sua apparenza consueta, si trasforma nell’oscuro antro in cui fallisce ogni tentativo di perfetta razionalizzazione, uno spazio  rarefatto dove risuonano racconti carichi di presagi, soprattutto quelli di Martin Dekker, “scienziato-sciamano” che prova a dar voce allo smarrimento di tutti. Einstein in particolare diventa, per bocca del giovane professore, il profeta di un mondo al collasso, annientato dalla tecnologizzazione di ogni suo aspetto. Il punto di rottura coincide in questo scenario con l’angoscia più profonda della società contemporanea: l’improvviso oblio delle macchine, cui nei secoli l’uomo ha delegato uno spettro sempre più ampio di funzioni fondamentali. L’oblio tecnologico mette così a nudo, costringe ad una difficile comunicazione, muta i rapporti tra gli individui e li fa vacillare in un dubbio radicale. Nel romanzo, più di ogni altra immagine, è lo schermo nero a rappresentare il peso di un silenzio che va ben oltre la copertura del Super Bowl 2022, e il suo immane dilemma risuona  nella testa di Jim e Tessa non appena i due si rendono conto di essere sopravvissuti:

“La donna annuì come se già sapesse chi erano e cosa volevano […]

– Posso dirvi questo. Di qualunque cosa si tratti, quello che è successo ha messo fuori uso la nostra tecnologia. La parola stessa mi pare obsoleta, persa nello spazio. Dov’è la fede nell’autorità dei nostri device sicuri, delle nostre capacità di criptaggio, dei nostri tweet, dei troll e dei bot […]

Le luci sul soffitto cominciarono a sfarfallare e ad affievolirsi finché non si spensero del tutto […] Dopo una breve pausa, la donna riprese a parlare nel buio, sempre sussurrando, ma in modo più concitato.

– Più sono avanzati più sono vulnerabili. I nostri sistemi di sorveglianza, i nostri dispositivi di riconoscimento facciale, la risoluzione delle immagini. Come facciamo a sapere chi siamo?” 

Che cosa comporta la “situazione contingente”? Cosa succede quando l’orizzonte del progresso si annulla in una sorta di buco nero? Così come queste domande non interessano certo per la prima volta la grandiosa produzione dello scrittore americano, anche la raffigurazione del blackout non rappresenta un elemento di novità nel suo immaginario: se ne rintraccia la presenza in un episodio di Underworld, nella solitaria passeggiata notturna di Nick Shay per le strade della sua turbolenta giovinezza. Interessante notare come, nella definizione della dimensione estrema e totalizzante che pervade il suo ultimo libro, DeLillo ritorni a questa immagine, potente riflesso della crisi del modello di vita occidentale.  

Nello sgomento generale, Martin e Diane riescono a stabilire una connessione, rappresentando la coscienza critica della situazione. Nucleo “forte” del racconto, attori di un’empatia che nel suo sviluppo diventa quasi telepatica, i due personaggi riflettono l’estremo tentativo di un’umanità che non vuole fermarsi alla “crudezza” del fatto, ricercando e sintetizzando frammenti di significato. Una comunicazione difficile, la loro, che fa propria (nelle espressioni enigmatiche e allusive, così come nei silenzi prolungati e negli sguardi) la consapevolezza del limite conoscitivo che è alla base del paradigma scientifico moderno, del quale Einstein è certamente uno dei grandi padri. 

Il rapporto tra Diane Lucas e Martin Dekker si arricchisce di sfumature intriganti, addirittura erotiche nel capovolgimento dei rispettivi ruoli sociali. Coinvolto in questo legame intenso ed esclusivo, il giovane subisce una sorta di metamorfosi, assumendo i tratti di un “vate” che, riferendo le sue conoscenze su Einstein, finisce per diventare la “bocca” del grande scienziato. Martin Dekker diventa così l’oracolo di una scienza ancora tutta da decifrare, nella quale risiede, con forza davvero profetica, la chiave di lettura di quanto sta avvenendo. Una trasformazione che non dissipa il mistero di questa figura solitaria, di cui la donna sospetta peraltro la follia:

“[…] Insegnava fisica in una scuola superiore del Bronx, per le cui strade si aggirava invisibile […] Da un anno, Diane andava dicendo al giovane che era il caso di tornare sulla terra. A malapena occupava la sedia, sembrava presente solo a tratti, un cliché originale, diverso da tutti, una figura non prevedibile né superficiale, un uomo perso nello studio compulsivo del manoscritto di Einstein del 1912 sulla Teoria della relatività speciale.”

Il silenzio racconta del “granello” nell’ingranaggio apparentemente inarrestabile della civiltà, immagina la portata e le implicazioni di questo arresto, in grado di evocare, velocemente e contemporaneamente, angosce lontane e paure inconfessabili. Nel primo capitolo, l’esperienza di un volo transatlantico e l’irriducibile senso di vulnerabilità provato dal turista Jim Kripps spinge lo stesso a riflettere sull’assuefazione al benessere, alla pretesa di controllo sulla realtà che si sostanzia nella visualizzazione di dati che si susseguono ininterrottamente sullo schermo sopra di lui. Anche l’ansia “compilativa” della moglie può essere interpretata come espressione della necessità di contrastare un senso di morte e di finitudine; il bisogno di Tessa Berens di affermare la propria unicità si manifesta inoltre nel tentativo di ribellarsi alla potenza della memoria digitale, in una “sfida” necessaria all’artefatto onnisciente: 

“Questa cosa le dava un senso di soddisfazione. Venuto fuori dal nulla. Non viene più quasi niente fuori dal nulla. Quando un elemento mancante viene a galla senza l’ausilio di alcun supporto digitale, ognuno lo annuncia all’altro con lo sguardo perso in lontananza, l’aldilà di ciò che si sapeva un tempo e che è andato smarrito.”

Nella raffigurazione del caos generato dall’oblio tecnologico, il romanzo afferma una doppia consapevolezza: il conclamato fallimento del “dogma” antropocentrico, che continua a caratterizzare la nostra visione della realtà (“Il mondo è tutto, l’individuo niente. L’abbiamo capito tutti, questo?”, conclude Martin nel finale), e l’urgenza di ridefinire le nozioni di “umano” e  “macchinico” come elementi di un’unica entità. In altri termini, Don DeLillo indica la centralità di una riflessione su che cosa sia l’essere umano oggi a partire dal definitivo allontanamento di qualsiasi pretesa antropocentrica. La stessa consapevolezza illuminata cent’anni fa da Einstein, e che l’esperienza della pandemia ci avrebbe dovuto favorire.