Magiche rivelazioni. Due film di Ryusuke Hamaguchi

Approdato recentemente in sala con due opere premiate quest’anno alla Berlinale e al Festival di Cannes, il nome dell’autore nipponico spicca per un cinema dal profondo respiro poetico, nel quale la distanza emotiva tra personaggi coinvolti in circostanze inaspettate detta tempi ed atmosfere.

 

_di Alberto Vigolungo

Le possibilità dell’incontro, le sue imprevedibili conseguenze costituiscono il nucleo narrativo delle storie raccontate da Ryusuke Hamaguchi. Che si consumi nel turbinio della vita metropolitana, nel silenzio dell’ufficio di un professore universitario o del parcheggio sotterraneo di un albergo, l’incontro viene esplorato nelle sue diverse sfumature, attraverso un filmico perlopiù statico, che si esprime attraverso long take in cui la macchina da presa rimane  immobile, focalizzandosi talvolta su  intensi piani a due e sottolineando l’ambientazione. Ma, ancor più della regia, le due opere si segnalano certamente per la sceneggiatura, dalla squisita vena letteraria, che ha nella centralità del dialogo il suo principio più importante. 

Distribuiti in Italia dalla sempre indispensabile Tucker Film, dopo il plauso generale ottenuto in due dei maggiori festival internazionali, Wheel of Fortune and Fantasy (偶然と想像, 2021) e Drive My Car (ドライブ・マイ・カー, 2021) intrattengono un legame stretto, con il secondo che, sotto molti aspetti, si offre addirittura quale elaborazione compiuta dell’universo tematico del precedente, caratterizzato da una struttura frammentata. Nella messa in scena di questo universo introspettivo, l’occhio del regista indugia a lungo sull’immagine, quasi ad attendere una rivelazione, cogliendo i segni che essa imprime sui volti e sulle cose. 

I personaggi messi in scena da Hamaguchi sono giovani-adulti che si muovono incerti nel flusso della vita contemporanea, alle prese con una ricerca su di sé e sugli altri, colpiti dalla sensazione di aver fallito, o di aver tradito promesse importanti; una ricerca in cui essi sembrano essersi impantanati, e rispetto alla quale gli incontri inaspettati che costellano le loro storie  rappresentano in qualche modo la svolta, come inciampi che inducono ad una deviazione. Il fulcro di questa ricerca ruota, in entrambi i film, intorno allo sviluppo di relazioni “a due”, ciascuna con i propri significati, ciascuna permeata dall’influenza di un maestro come Haruki Murakami e del suo mondo poetico, nelle tematiche così come nei procedimenti narrativi (un’influenza che si estende ben oltre il secondo film, adattamento di un racconto tratto dal volume Uomini senza donne), ciascuna segnata da una certa intraprendenza femminile.

In effetti, l’ispirazione letteraria – e l’influenza murakamiana – del cinema di Hamaguchi è ben osservabile già nel primo film. Composto da tre episodi, incentrati rispettivamente su temi come la difficoltà di accettare la fine di una relazione, il sesso, la nostalgia dei sentimenti dell’adolescenza, il rapporto tra realtà e finzione, Wheel of Fortune and Fantasy pone l’accento sulle sfumature e le conseguenze dell’incontro, vera e propria “forza” in grado di orientare talvolta la vita degli individui. In quest’opera, l’incontro diventa il luogo in cui i diversi personaggi mettono poco alla volta a nudo fragilità e timori, assume un valore catartico, addirittura terapeutico, cogliendo il riflesso di un’umanità in perenne conflitto con le proprie emozioni. Gli incontri sperimentati dai personaggi dei film di Hamaguchi si pongono innanzitutto come interruzione improvvisa, per poi  trasformarsi in rivelazione, quindi in una nuova consapevolezza. 

“Tre film sulle coincidenze e sull’immaginazione”, come recita il trailer della pellicola, Wheel of Fortune and Fantasy sviluppa essenzialmente due concezioni dell’incontro. Nella prima storia, emblematicamente intitolata Magic (or Something Less Assuring), la protagonista, chiacchierando con un’amica a bordo di un taxi, capisce che il ragazzo di cui quest’ultima parla con tenerezza è il suo ex; subito dopo averla accompagnata a casa, Meiko si fa condurre all’ufficio di lui, dove prorompe in una lite, tra sfoghi di gelosia e dolore per un rapporto già finito. Un caffè, luogo in cui Tsugumi desidera presentare alla ragazza la sua nuova fiamma, diventa nel finale lo scenario in cui realtà e immaginazione si confondono, secondo un procedimento tipicamente murakamiano. Lo stesso incontro è messo in scena due volte, delineando il gioco narrativo suggerito peraltro dal titolo della versione italiana del film: nel primo, Meiko decide di restare e di “sfidare” l’amica, rivelandole infine il legame tra lei e il giovane; nel secondo, fugge via, lasciando i due soli nel bar. Quale dei due viene vissuto? Quale immaginato? Entrambe le situazioni sono frutto della fantasia di Meiko? La narrazione non dissipa la magia di questa sequenza, consegnando alla protagonista una sola certezza: la necessità di ricominciare, sentimento che emerge a poco a poco nel silenzio di alcune inquadrature che la immortalano per le grandi vie di Tokyo, fino a fissarsi nel finale nel moto leggero dei rami di un albero, al centro di un’immagine racchiusa dalle linee rette di grattacieli e colonne innalzate dai numerosi cantieri che operano in quell’area.

Il motivo del “bivio”, proposto in Magia attraverso un procedimento esplicitamente ludico, si ripresenta nella seconda storia assumendo i contorni di un turning point che sconvolge la vita di due individui. In Door Wide Open una studentessa universitaria, tentando di incastrare un professore all’apice della sua carriera per compiacere il compagno, stabilisce con lui una relazione empatica in cui la dimensione dell’attrazione sessuale sembra costantemente sul punto di prendere il sopravvento, senza mai sfociare nell’atto. Proprio dal loro incontro scaturisce la casualità che segna in modo indelebile le loro vite: la scoperta di una mail, conseguenza diretta di quel pomeriggio, causerà infatti il divorzio di Nao e l’oblio del professor Segawa.

L’episodio che conclude il film, forse il più suggestivo, racchiude un’altra importante concezione dell’incontro e delle sue possibilità. Ritorna l’elemento ludico, dominante nella relazione che vede protagoniste due donne, Aya e Natsuko, incontratesi per caso sulle scale mobili di un grande interscambio metropolitano. La prima crede di aver riconosciuto nell’altra una ex compagna di scuola, da lei amata; la scoperta che non si tratta della stessa persona non sminuisce la bellezza di questo incontro, accentuando anzi in Natsuko la curiosità per la sua ospite: anche lei, infatti, prova la stessa nostalgia per un affetto lontano; prima a casa, poi durante una passeggiata che segna la fine del loro pomeriggio insieme, ognuna interpreta a propria volta la parte della donna desiderata. In Once Again l’incontro si trasforma in una “recita” preziosa, assumendo un valore quasi terapeutico. Si delinea in quest’ultimo episodio la riflessione sul rapporto tra “vita” e finzione che è al centro del film successivo, riassunto nella condizione di Yusuke Kafuku. Tuttavia, rispetto a Drive My Car, la prima delle due opere presentate quest’anno dal regista si concentra sull’immediatezza dell’incontro, i cortocircuiti emotivi innescati dal caso e dunque sulla sua dimensione eccezionale, di deviazione dal flusso alienante della quotidianità, di “interruzione”. Le magiche rivelazioni di Wheel of Fortune and Fantasy scaturiscono tutte da un incontro che offre ai vari personaggi l’occasione di esprimere i propri sentimenti, di affermare il proprio “io” in una realtà sfuggente, e per il quale,  in ben due storie, ciascuno tenta di lasciare una traccia di sé nella vita di uno sconosciuto, dopo aver ottenuto la sua fiducia. Condividendo la propria sensibilità, le donne di Hamaguchi spalancano nuove possibilità, creano mondi in cui evadere anche solo con la forza dell’immaginazione. In ciò consiste la poesia del film. 

Il tono intimista che distingue queste atmosfere si riflette appieno in precise soluzioni di regia,  nella durata dei primi piani e dei piani ravvicinati, così come nell’inclinazione, più in generale, alla camera fissa (dominante nei long take e piani sequenza alla base di alcune delle scene più importanti); scelte funzionali ad un’indagine che ha nel volto, i suoi fremiti, le sue reticenze, ma anche nel rapporto tra figura e spazio, i principali oggetti d’interesse. Tra Bergman e Hitchcock, insomma, si direbbe che Hamaguchi scelga il maestro svedese, anche se nella sua riflessione sulla forma-film il modello dichiarato è John Cassavetes, come rivela in un’intervista concessa a “Filmmaker”.

Le sospensioni narrative contribuiscono ad un lirismo che tocca nel dialogo il suo apice: un dialogo abbondante, intenso, arricchito nel secondo film da citazioni colte. In Drive My Car le linee di ricerca tracciate nella pellicola precedente convergono in un disegno più compiuto, fondendosi in un’unica storia, tratta dal corpus di colui che è probabilmente il massimo autore giapponese vivente  e attraversata da uno dei più noti drammi di Anton Cechov, con il quale l’opera intrattiene un gioco di specchi e rimandi costanti. La dinamica narrativa del film ruota intorno all’avvicinamento di due solitudini, un regista rimasto vedovo e una ragazza che l’esistenza ha messo subito di fronte a scelte nette. I due personaggi si conoscono a Hiroshima, dove lui si  reca per lavorare ad una messa in scena dello Zio Vanja, e dove lei presta servizio come autista per la compagnia che ha ingaggiato l’uomo.

Se, dopo una parentesi sulla vita del protagonista insieme all’amata moglie Oto, il film si concentra a lungo sulle varie fasi dell’allestimento dello spettacolo, sulle dinamiche relazionali che si stabiliscono tra i professionisti coinvolti, sui sensi di colpa di Yusuke Kafuku e sul suo confronto con il giovane Takatsuki (cui lo accomuna il talento, ma anche l’affetto per Oto),  è soprattutto nell’ultima parte, quando il progetto pare avviato ad un definitivo fallimento, che la relazione forte del film si stringe sempre più, in un viaggio verso Nord che assume il carattere di un atto necessario e infine di una catarsi. Un’empatia che nasce dall’incontro di due personaggi smarriti, per i quali il passato si configura come un vero e proprio trauma, un’enigma irrisolto e tuttavia sempre presente: per lui, il rapporto con la moglie, scomparsa improvvisamente, con il suo carico di misteri e rimpianti; per lei, l’infanzia negata da una madre violenta, vissuta tra gli stenti in un villaggio di provincia. La loro apparente lontananza si stempera lentamente, in una successione di analogie fortemente evocative. Lo sgomento di Yusuke è infatti lo stesso della ragazza puntuale ed efficiente che tutte le mattine lo accompagna al lavoro per poi riportarlo in albergo alla sera: la difficoltà di mettere ordine nella propria vita, la sensazione di inseguire interrogativi che non possono trovare risposta. Ma, al di là della loro comune sofferenza, Kafuku e Misaki condividono anche una certa esperienza del tempo. Per entrambi, la vita corre troppo velocemente, lasciando dietro di sé un vuoto incolmabile: la decisione dell’uomo di rimandare il chiarimento con la moglie è improvvisamente annullata dalla morte di quest’ultima, mentre la necessità fa della ragazza un’autista formidabile, ben prima del raggiungimento della maggiore età. 

Nel loro incontro, la relazione formale tra l’uomo e la giovane assume un valore fortemente simbolico: l’autista non accompagna semplicemente il passeggero nei suoi trasferimenti quotidiani, ma intraprende con lui un viaggio verso una nuova consapevolezza (il cui itinerario corrisponde fisicamente ai paesaggi glaciali del Nord). Il rapporto tra i due evolve lentamente, passando per silenzi nei quali entrambi manifestano una personalità introversa. Pur condividendo questo aspetto, ciascuno riflette due condizioni tanto diverse quanto precise, quella di un adulto turbato dalla ricerca di un senso che sfugge continuamente e quella di una ragazza che ha già maturato una certa visione del mondo. Su questa distanza iniziale, tra il dubbio e il rimorso di lui e la ruvida saggezza della vita di lei insiste una delle inquadrature più suggestive del film, un piano d’insieme ripreso dall’alto in cui la figura di Kafuku, vicina al bordo di una banchina, si staglia sul mare azzurro, mentre quella di Misaki è ritratta seduta sulla gradinata di cemento poco lontano: una linea obliqua taglia l’inquadratura, creando un netto contrasto tra il dinamismo delle onde e il loro colore “pieno” da una parte, e la fissità granitica del cemento, che domina la parte opposta. In questa immagine è  sintetizzato lo stato dei due personaggi al momento del loro incontro.

È evidente come, nella costruzione di Drive My Car, Hamaguchi punti decisamente su un gioco di corrispondenze con l’opera teatrale cui il protagonista lavora con dedizione: i temi del film, dalla caducità della vita alla ricerca del senso dell’esistenza, le inquietudini che turbano i personaggi sono infatti le stesse al centro del dramma cechoviano. “Ciò che è spaventoso è vivere senza sapere come stanno le cose” afferma Kafuku citando direttamente Vanja, rispecchiandosi in lui. 

Oltre che nel rapporto con Misaki, la ricerca del protagonista si sviluppa nel confronto con Takatsuki, con cui intreccia una dialettica tanto professionale quanto personale, essendo stato quest’ultimo l’amante della moglie. Anche l’attore è fonte di rivelazioni preziose, emerse perlopiù di sera, davanti ad un cocktail servito al bancone del bar dell’albergo o di un locale notturno. In un lungo dialogo, intenso e tuttavia mai spinto oltre il piano dell’allusione, disturbato solamente dal rumore sommesso dell’interno di un’auto (come nel primo episodio di Wheel of Fortune and Fantasy), il ragazzo conferma l’unicità di Oto, la bellezza della sua anima, la stessa dichiarata da Misaki dopo aver ascoltato per ore la voce registrata della donna che recita le battute dello Zio Vanja, alla quale il suo passeggero non rinuncia in nessuno dei loro consueti tragitti).

Il tempo della narrazione si accompagna magistralmente all’evoluzione della ricerca di Kafuku, ai tempi del personaggio: se all’inizio è fluido, rapido, come il tempo in cui Yusuke vive provando a lasciarsi scorrere tutto addosso, attaccandosi al proprio lavoro, in seguito rallenta, a simboleggiare lo smarrimento del protagonista e poi l’emergere di una nuova consapevolezza, costruita nel confronto con altre sofferenze: “Chi sopravvive non fa che pensare ai morti. In un modo o nell’altro sarà sempre così… Ma dobbiamo vivere. Ce la faremo”. Queste parole, pronunciate dall’uomo al termine del viaggio, esprimono il senso di un nuovo inizio per entrambi, e sono accompagnate da un’immagine che fa da contraltare a quella già descritta: le figure di Kafuku e Misaki, “scisse” nel piano d’insieme precedente, sono qui immortalate in un abbraccio sullo sfondo uniforme di un paesaggio innevato. Anche in questo caso, Hamaguchi persegue la costruzione di un’inquadratura fortemente evocativa, depositaria di altre rivelazioni.

Se la ricerca dei personaggi di Wheel of Fortune and Fantasy passa attraverso una serie di incontri occasionali, in Drive My Car assume un respiro più ampio, sciogliendosi definitivamente nella dimensione del viaggio, che diventa predominante nell’ultima parte del film. Quest’ultimo, declinato nel suo tòpos classico, rappresenta l’ultimo approdo di un lungo processo. La dimensione del viaggio attraversa comunque il film nella sua interezza, rispecchiando significati diversi: routine professionale prima, divisa tra auto e aereo, poi luogo intimo di riflessione e di scoperta dell’altro, quando, deviando dal consueto tragitto su cui si fonda il loro rapporto formale, Kafuku e la sua giovane autista intraprendono la lunga strada verso l’Hokkaido. In questa deviazione dalla norma si manifesta la forza del loro legame, in questa svolta i due personaggi possono guardare al passato senza più rimorsi né sensi di colpa. Nel silenzio della campagna innevata, traguardo del loro viaggio, si consuma una nuova consapevolezza.

Il primo passo di questo lungo processo consiste in un atto di fiducia, anch’esso in qualche modo “radicale” per il regista: essere disposto a cedere il volante della sua auto ad un autista, accettando la clausola imposta dalla compagnia che l’ha ingaggiato. Una macchina che è il deposito della memoria di Kafuku, laddove si concede al ricordo di Oto, attraverso l’ascolto della sua voce registrata. Soltanto per assolvere un obbligo contrattuale l’uomo decide di condividere l’auto, consentendo a Misaki di entrare in quello che fino ad allora è stato un suo esclusivo dominio, la cui forma si riflette nel design squadrato di una Saab turbo rosso pastello. Vero e proprio oggetto-icona del film, quest’auto è molto più di un semplice mezzo di trasporto, ma l’ambiente in cui il protagonista rivela la propria natura e le proprie ansie, facendo quasi tutt’uno con lo stesso. Nel suo aspetto smaccatamente “vintage”, la Saab gelosamente posseduta da Yusuke è specchio fedele della sua sensibilità, della sua sensazione di vivere fuori dal tempo presente, di inseguire verità irraggiungibili.

Sotto tutti questi aspetti, Kafuku e la sua auto costituiscono un insieme apparentemente inseparabile. Soltanto il lavoro costringe il protagonista a mutare il suo rapporto con la Saab, che implica innanzitutto un nuovo punto di vista. La sua “trasformazione” da conducente a passeggero (dettata da un vincolo contrattuale) corrisponde infatti all’evoluzione della dinamica relazionale tra lui e Misaki: spostandosi nel sedile posteriore, l’uomo non può che ampliare la sua prospettiva, diventare osservatore della condizione di un’altra persona, elaborare un lutto fino a quel momento intoccabile. L’amicizia tra Yusuke e Misaki nasce proprio dalla condivisione dell’oggetto più personale dell’uomo, e passa attraverso un atto di fiducia non semplice per l’uomo, rimarcata nel titolo stesso del film: Drive My Car è la storia di un legame empatico che si stabilisce tra due estranei a partire da una concessione, nel segno della reciproca comprensione del proprio dolore.

La valorizzazione della dimensione intima di un ambiente è un altro trait d’union dei due film. L’interno di un’auto, in particolare, è in entrambi il luogo di rivelazioni (si pensi al  confronto di Kafuku con il suo attore alter-ego, ma anche, in un tono certamente più leggero, al dialogo tra Meiko e Tsugumi), di confessioni, di elaborazioni; un ambiente che, nel secondo film, si arricchisce di altri significati, e nel quale diversi aspetti della personalità del protagonista si manifestano contemporaneamente. A questo spazio sono dunque legati alcuni dei momenti più intensi dei due lavori realizzati dal regista nato a Kanagawa.

Distribuiti in sala a poche settimane di distanza l’uno dall’altro, Wheel of Fortune and Fantasy e Drive My Car segnano un vertice assoluto nella filmografia di Ryusuke Hamaguchi, rischiarando le possibilità dell’incontro, la forza del caso, le piccole magie e rivelazioni che infrangono le barriere dell’apparenza. Il puntino nero nel biancore dell’esistenza, come l’abbraccio di Yusuke e Misaki nelle nevi dell’Hokkaido.