A volte la maglia del quotidiano può allentarsi, in letteratura come nella vita. Qualcosa di potente e inatteso si manifesta nello stupore, nell’inquietudine, nella meraviglia di chi per coraggio o per curiosità – o per ingenua avventatezza – si è affacciato al di là della soglia della finitezza della dimensione umana e che così, anche solo per un istante, percepisce in tutta la sua trasversalità la vertigine di infinito.
_di Federica Bassignana
La letteratura è da sempre una bussola della realtà: mostra vie, illumina mondi, disvela relazioni e anticipa possibilità. Ma è altresì una chiave essenziale quanto eccezionale per comprendere anche al di là della comprensione, in quei momenti in cui si intravede la parvenza di una luce che improvvisamente illumina l’ordinaria dimensione del reale e fa scorgere un segno o il pieno compimento del mistero. Armando Buonaiuto ha accolto la proposta di Einaudi di curare una raccolta di racconti spirituali e ha teso il filo dell’esistenza che lega umano e divino nel corso di diciotto narrazioni, unite dalla corrente della materia umana incandescente che vale la pena esporre. Lo scritto introduttivo di Gabriella Caramore, La parola efficace, avvia i lettori nelle corde profonde dell’esperienza di inseguimento dell’invisibile che percorre tutta la raccolta e parte dalla riflessione sul termine spirituale – quel soffio primordiale che crea la materia – e su quella breve e fulminea condizione che genera un movimento intimo, che disvela l’essenza umana mostrando qualcosa di inatteso e che diventa così una narrazione spirituale.
Da Dino Buzzati a Guy de Maupassant, passando per Giovannino Guareschi, Varlman Šalamov, Friedrich Dürrenmatt, Vasilij Grossman fino a Natalia Ginzburg, Raymond Carver e Rainer Maria Rilke, solo alcuni degli autori grazie ai quali i lettori possono “percorrere in punta di piedi il ponte tra ciò che si annida nel cuore e ciò che, misteriosamente, lo trascende”. Un’antologia che offre intuizioni preziose e urgenti, per ricordare un diverso senso del tempo – quella della riflessione – e dello spazio – quello della dimensione spirituale. Una polifonia della spiritualità: diverse voci plasmano diversi movimenti verso il mistero.
Ma accade che le sue manifestazioni abbiano forme sempre differenti: a volte i personaggi di questi racconti arrivano tardi, a volte fuggono, a volte devono fare un passo a lato, altre volte semplicemente devono cambiare prospettiva per osservare il suo disvelarsi. Tutti si sono però trovati alla soglia che divide la sconfinatezza dal limite umano, tutti hanno percepito la potenza della vertigine dello slancio e tutti, inevitabilmente, rappresentano la regolare misura dell’uomo in un infinito la cui dimensione si estende nella sua essenza improporzionale. La copertina è esemplificazione di questa impressione, come afferma Armando Buonaiuto nella nota introduttiva:
“Quando si è trattato di decidere l’immagine per la copertina del libro, ho chiesto se fosse possibile prendere ispirazione da un’opera d’arte che amo molto, il Monaco in riva al mare di Caspar David Friedrich. Di questo dipinto di affascina soprattutto la composizione, in cui una piccola figura umana si trova al cospetto di un’enormità indefinita dove terra, mare e cielo si fondono: da una parte l’ordinaria misura dell’uomo e, tutto intorno a lui, una dismisura senza appigli.”
Per procedere alla selezione dei racconti, non una presunzione di vederci chiaro nei territori della spiritualità – sconfinati e difficilmente circoscrivibili – della letteratura e delle loro aree di reciproco sconfinamento, scrive il curatore, quanto un appello sincero alla propria autentica condizione di lettore – il miglior principio a disposizione. La narrazione di ogni racconto in questo itinerario spirituale avrebbe dovuto suscitare un doppio movimento: catturare e allo stesso tempo slanciare oltre.
“Quando nella lettura mi è accaduto di sperimentare su di me queste condizioni, ho avuto la certezza di trovarmi nel mezzo di un racconto spirituale”.
Di riflesso, i lettori accolgono questo slancio in tutta la sua potenza e con la fiducia della scelta, e in loro si genera la condizione inversa del doppio movimento: ricevono l’impeto insito nella narrazione, con stupore e talvolta smarrimento, per poi raccogliersi nel commento del curatore alla fine di ogni sezione. Nell’antologia i racconti si richiamano vicendevolmente, sono infatti uniti da fili di riflessione tesi per tutta la narrazione; i gruppi portano alla luce connessioni e affinità sotterranee che attraversano la lettura in tutta la sua trasversalità. Così la letteratura si parla attraverso i secoli grazie alle parole, strumento che sa accogliere la trascendenza del mondo: John Fante dialoga con Federigo De Benedetti; Olga Tokarczuk con Anton Čechov; Herman Hesse con Jorge Luis Borges; Antonio Tabucchi con Wilhelm Heinrich Wackenroder e Chandra Livia Candiani.
I racconti spirituali recano in sé stessi il solco profondo del dialogo tra l’essenza umana – e in alcuni testi, anche animale – e lo spirito – talvolta, Spirito –, quella dimensione ulteriore che eccede e trascende la proporzione del mondo conosciuta. Perché, come si legge in questo mosaico della spiritualità, citando Chiam Potok, l’uomo non vede la realtà che a frammenti, tra un battito di ciglia e l’altro. E quindi, in questa visione discontinua e colma di cesure, si può vedere – o anche solo provare a vedere – Dio? Risponde il curatore: provare si può, ne vale sicuramente la pena, nonostante la nostra stessa natura di uomini ci espone ai punti ciechi, alle mancanze, nelle quali puntualmente inciampiamo.
I testi proposti si rivelano sotto forma di un climax ascendente. Una tensione costante sempre verso l’alto accompagna la lettura: con fiato sospeso si attende la manifestazione di un barlume, di un mistero, di una forza antica. E non appena si svela il momento e a volte non se ne percepiscono pienamente i contorni, è necessario fermarsi, meditare e mettere a fuoco. E magari cambiare anche prospettiva, perché è facendo un passo a lato che si vede, forse, con più chiarezza.
Abbiamo intervistato Armando Buonaiuto, curatore della raccolta edita Einaudi e del festival Torino Spiritualità, già tra i conduttori per Rai Radio 3 di Uomini e Profeti.
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Cosa rende un racconto, un racconto spirituale?
È la domanda che mi sono posto quando ho ricevuto la proposta da Einaudi di curare una raccolta di racconti spirituali. Ho accolto da subito con piacere la richiesta, ma mi sono chiesto secondo quale criterio avrei proceduto alla selezione. Non c’è un canone letterario sui racconti spirituali, quindi ho utilizzato il criterio per me più onesto, quello della mia sensibilità personale: ho preso come bussola me stesso e il mio percorso di lettore, di ricerca e nutrimento spirituale. Ho quindi selezionato racconti che erano rimasti molto impressi in me e che mi sembrava avessero un fil rouge a collegarli. Prima di mettermi al lavoro, mi sono detto che i testi che avrei proposto avrebbero dovuto catturarmi e allo stesso tempo farmi sentire più libero. Un’esperienza di doppio movimento: tenermi dentro la pagina e poi farmi affacciare a un oltre. Se questa condizione fosse accaduta durante la lettura, quello per me sarebbe stato un racconto spirituale, con la postilla che era tale secondo me. Inoltre, alcuni autori che ho scelto difficilmente rientrerebbero nella linea di racconti spirituali, ma anche in quelli io ho percepito una spinta oltre la nostra scala di grandezza.
Come ha preso forma l’idea dell’organizzazione della raccolta?
Ho ragionato tanto sulla struttura della raccolta chiedendomi quanto spazio potessi concedermi come curatore. Mi domandavo se dovessi scrivere in apertura, utilizzare notazioni iniziali oppure scrivere dopo il finale dei racconti. Ho sciolto questo dubbio quando mi sono accorto che il commento a posteriori mi avrebbe concesso più libertà di analisi, permettendomi di radunare più racconti in sezioni. Mi affascinava la facoltà di non raccontarli singolarmente ma muovermi attraverso di loro perché nell’accostarli alcuni si parlavano tra loro e facevano emergere intuizioni e riflessioni, notavo come accendevano fosforescenze illuminando aspetti che a una lettura singola si sarebbero notati
meno. Ad esempio, nel primo trittico “È tardi?” avevo l’impressione che il tema dell’approssimarsi a una soglia di mistero e arrivarci un attimo troppo tardi, o troppo in anticipo, oppure anche nonostante il ritardo riuscire ad entrarvi, era un elemento che accomunava i testi. Così è stato interessante riservarmi uno spazio finale in coda ai racconti per riprendere il tema di connessione tra le mani.
È stato difficile dividere i racconti e raggrupparli in sezioni?
Alcuni racconti si sono imposti da soli, in altri casi ho provato a cercare e indagare a fondo la connessione. In certi momenti invece era addirittura difficile districarli gli uni dagli altri, perché ritrovavo nuclei strettamente correlati ma per me era importante invece legarli ad altri racconti. Spesso, dunque, il richiamo era immediato e non è stato difficile raggruppare nelle sezioni, altre volte la divisione è stata frutto di un lavoro di discernimento. Ho scelto di non legare ad altri racconti solo i testi di Grossman, Dürrenmatt e Šalamov perché ho ritenuto che meritassero un commento dedicato.
Come e quando si sono imposti questi racconti nel metro della tua sensibilità di lettore?
L’arco temporale è molto vasto: Dino Buzzati e John Fante sono letture storiche che mi hanno accompagnato sin da ragazzo, altre letture invece sono più recenti, come Olga Tokarczuk, Nobel per la letteratura del 2018, che ho scoperto recentemente. Altri racconti ancora mi sono stati suggeriti da amici, come Eric Minetto, proprio in vista del mio lavoro di ricerca per il libro: il racconto di Wilhelm Heinrich Wackenroder mi è stato consigliato da Federico Vercellone, docente di Estetica dell’Università di Torino, Gabriella Caramore che ha curato lo scritto introduttivo della raccolta mi ha fatto conoscere Federigo De Benedetti e il racconto di Guy de Moupassant mi è stato suggerito da Carlo Grande. I testi proposti sono frutto quindi di consigli, interessi personali, suggestioni e scoperte.
Come si manifesta la suggestione nel momento in cui si arriva alla soglia della spiritualità?
Il mistero non è solo trascendenza, ha tante manifestazioni e una delle più belle la rivedo nel racconto di Raymond Carver quando il mistero accede secondo un altro ordine di senso. C’è una bellissima descrizione di avere la sensazione di “non trovarsi dentro a niente” e anche quella è affascinante. La misura del mistero è tale da essere ineffabile e i personaggi della raccolta si misurano con l’ineffabile quando crollano gli schemi pregressi con cui si leggeva il mondo. Accade uno sgretolarsi dei sistemi e va in crisi la prospettiva abituale.
Il racconto più difficile da decodificare, il cui significato ti ha suscitato maggiori interrogativi?
Il Presepe di Bardo di Olga Tokarczuk. Nella narrazione si intreccia una base storiografica e l’invenzione e a una prima lettura questo mi suggestionava, ma non capivo dove fosse il punto di incandescenza. Rileggendo a fondo ho capito che per me era Maria la figura su cui porre attenzione: è la custode del presepe, la chiave di accesso a quel racconto è lei perché bisogna provare a guardare attraverso i suoi occhi e solo così si capisce il senso di quel presepe. Quando l’ho realizzato, mi si è aperta la comprensione di colpo, sconfessando la prima lettura.
Quello che invece si è insediato più nel profondo delle tue corde?
Cattedrale di Raymond Carver: il racconto parte così ordinario e c’è una tale semplicità con cui tutto accade. L’accesso alla visione ulteriore è attraverso un pezzo di carta. La magia avviene nella mano del cieco e del padrone di casa che a un certo punto si toccano e il narratore si toglie dal centro della scena, si arrende, si fa guidare e da quel momento in poi qualcosa può accadere nel suo animo ed è proprio attraverso una semplice azione che si apre a un’altra dimensione.
C’è un racconto che più di altri raccoglie il senso dell’antologia?
I due autisti di Dino Buzzati in apertura. Mi sembrava un modo omeopatico per entrare nel libro, perché il lettore vede un primo tentativo di affacciarsi al mistero. Ho pensato fosse un buon incipit per trasmettere l’intento dell’antologia. Nel momento in cui in questo racconto autobiografico Buzzati afferma di avvertire qualcosa di profondo in sé stesso, sente che è come se ci fosse una membrana che lo separa da qualcosa che non è di questo mondo. “Ma l’incantesimo dura poco, un’ora e mezzo, non di più”, scrive e poi la vita torna a macinarlo come prima. Mi sembrava emblematico di quello che accede nei racconti, perché c’è sempre una membrana che si fa sottile, si avverte che c’è qualcosa oltre che bussa, e ogni personaggio compie un passo diverso nel muoversi verso o fuggire da questa percezione però si ha comunque la sensazione della vibrazione di una vigilia, di un sipario che sta per aprirsi. Buzzati è un preludio senza una sinfonia ed è nelle pagine seguenti che le note iniziano ad arrivare.
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Intervista a cura di Federica Bassignana