Il cielo e le sue storie: a riveder le “Stelle” con Anthony Aveni

Ripercorrendo i racconti che spiegano e contraddistinguono le costellazioni del nostro universo, l’autore compone un vero e proprio trattato di archeoastronomia e astronomia culturale, in cui la passione archeologica e gli studi astronomici si incontrano per offrire al lettore una rassegna dei modi più curiosi e originali con cui le diverse popolazioni, in tutti i tempi e in tutti gli spazi, hanno rintracciato una correlazione tra cielo e terra. Il volume è edito da Il Saggiatore e vede la traduzione di Giulia Poerio.

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_di Roberta Scalise

«Lo scopo di raccontare le storie delle costellazioni è ricondurre un certo tipo di esperienza, ciò che vediamo sopra di noi, a un altro: l’inizio e la fine della vita, l’inseguimento, il salvataggio, il bisogno di sopravvivere, l’anticipazione dei cambi di stagione; oppure ancora la necessità di condividere un codice di buona condotta. Ogni storia stellare parla di noi»

Nel corso degli ultimi anni, le App per osservare il cielo e le sue costellazioni si sono moltiplicate esponenzialmente. Da quelle più semplici alle più sofisticate, ognuna di esse consente di immergersi nel mare di stelle e pianeti che ci sovrasta maestoso, riconoscendone, mediante la realtà aumentata, posizioni, “figure” e dati precipui. E facendo scaturire, da questi ultimi, una sequela di domande che, spesso, non trovano ancora risposte. Un po’ come i nostri antichi progenitori, filosofi inconsapevoli che, in epoche lontane, osservavano il cielo ponendosi i primi quesiti circa il tempo, lo spazio, l’essere e il nulla. Ammirando, con meraviglia e stupore, il moto degli astri che li irretiva con la sua eleganza e fascinazione.

Uno stupore che, nonostante le scoperte e le nozioni acquisite nel corso dei secoli, ci inebria tuttora, come dimostra il volume scritto da Anthony Aveni ed edito da Il Saggiatore, “Stelle. Il grande racconto delle costellazioni”, con la traduzione di Giulia Poerio. Al suo interno, un susseguirsi vorticoso di narrazioni, leggende e delucidazioni storico-scientifiche: le “storie” del cielo, che fin dai nostri esordi nel “regno della parola” – come direbbe Tom Wolfe – accompagnano i dubbi e gli interrogativi circa i suoi abitanti siderali. In tutte le parti e le popolazioni del mondo.

L’approccio di Aveni, infatti, non è meramente astronomico, ma reca con sé una dedizione per le origini e i significati quasi etnografica. Che cosa ha condotto il popolo cinese a costituire uno zodiaco suddiviso in dodici animali corrispondenti ad altrettanti anni? Perché gli aborigeni australiani distinguono in un «Tempo del Sogno» e in dei «Racconti del Sogno»? E, ancora, per quale motivo i greci collocano la costellazione del cacciatore Orione nel lato opposto a quella dello Scorpione?

Rispondendo a questi e a innumerevoli altri quesiti, Aveni compone un vero e proprio trattato di archeoastronomia e astronomia culturale – discipline di cui l’autore è considerato il fondatore –, dove la passione archeologica e gli studi astronomici si incontrano per offrire al lettore una rassegna dei modi più curiosi e originali con cui gli abitanti della Terra, in tutti i tempi e in tutti gli spazi, hanno tentato di esplicare ciò che circondava le proprie esistenze. Riscontrando, al contempo, continue corrispondenze con quelle “luci” che, invece, li dominavano, e dando sfogo, così, a quella peculiare capacità umana – la “pareidolia” – che permette di scorgere figure ove queste non sussistono.

Ciò che ne è scaturito è, dunque, un campionario di storie variegate e affascinanti, dissimili in base alla cultura e alla latitudine del popolo che ne ha dato origine. Ognuna di esse, però, rispondeva a uno scopo precipuo: placare l’«angoscia cosmica» spiegando i fenomeni e gli eventi naturali mediante immagini, narrazioni ed esperienze che apparissero familiari e rassicuranti. Basandosi sul principio di associazione e sulla prevedibilità del manto stellare, quindi, gli uomini sono riusciti ad apporre un ordine meticoloso non solo a quanto risiedeva nel cielo, ma anche, e soprattutto, agli eventi che caratterizzavano la loro quotidianità.

In questo modo, per esempio, l’avvistamento di Aagjuuk – «le stelle viste all’alba» – segnalava agli Inuit il sorgere di un nuovo anno, un «crepuscolo prolungato» sinonimo di festa in cui poter bere e mangiare fino all’eccesso, mascherarsi e cambiare partner – più o meno come il nostro Carnevale o Capodanno. Mentre la comparsa della «Cosa di Stelle» – le Pleiadi – annunciava ai barasana, popolazione andina stanziata nelle foreste pluviali amazzoniche, la fine delle piogge e il conseguente impegno sui campi coltivabili, da cui trarre sostentamento e cibo per la tribù. Senza dimenticare, poi, la scoperta della corrispondenza tra la latitudine di un individuo e l’altezza della Stella Polare, funzionale per orientarsi negli oceani immensi e navigare lungo determinati paralleli.

Ogni correlazione tra cielo e terra appariva, così, utile a scandire l’avvicendarsi delle stagioni, i tempi dei sacrifici, i cicli di luce e buio, ma anche la fisionomia delle città e delle costruzioni – ne è un emblema il feng shui –, gli insegnamenti morali da tramandare alle generazioni successive e le ricorrenze del credo religioso. Sempre rispettando le tradizioni e le sfumature culturali degli oratori delle “storie stellari”.

In questo senso, l’esempio forse più significativo della coralità di interpretazioni e variazioni semantiche è costituito dalle Pleiadi. Sebbene siano spesso confuse con il Piccolo Carro, esse sono universalmente riconosciute come un piccolo gruppo – tecnicamente, un “asterismo” – di sei, sette o otto stelle, assumendo, dunque, una valenza globale. Complice la loro posizione, che le colloca vicino all’eclittica – ossia «il percorso che il Sole, la Luna e le stelle seguono tra i pianeti» –, le Pleiadi costituiscono, infatti, un «punto di passaggio per un vivace flusso di traffico cosmico». Ragione per la quale la loro presenza ha sempre stimolato l’interesse e la creatività delle popolazioni che le ammiravano, contaminandone il mondo e gli usi terreni.

Non stupisce, quindi, che le Pleiadi siano il simbolo dei veicoli Subaru – termine che in giapponese significa “uniti” e indica proprio queste stelle; oppure che esse siano citate più volte da Esiodo, Maometto, Platone, Byron, Milton, Keats, Tennyson e dalla Bibbia; o, ancora, che ricoprano un ruolo primario nel Disco di Nebra, la mappa stellare più antica e risalente a 3500 anni fa. Oltre a essere annoverate, con una certa importanza, nella mitologia astronomica dei navajo, degli indiani caribe, dei peruviani, degli irochesi, dei gruppi rurali australiani, degli andini, degli indonesiani, degli zuli, degli aztechi e, naturalmente, dei greci.

Ogni costellazione è, dunque, impreziosita da un “universo” di senso preciso, fatto di codici, racconti e funzioni proprie del contesto in cui è osservata. Un universo, semantico e fattuale, che Aveni indaga con amore e dedizione mediante un registro che si muove costantemente tra i poli della divulgazione e della pratica oratoria, spaziando tra gli stessi in modo equilibrato e raffinato. Coadiuvato, in questo scorrere fluido, anche dalle illustrazioni vivide, eloquenti e talvolta ironiche curate dall’artista Matthew Green e poste a introduzione di ciascun capitolo. Alle quali si affianca, infine, l’egregio lavoro di Julia Meyerson, creatrice delle mappe dimostrative delle costellazioni che corredano le digressioni storiche contenute nel volume e amplificano la già ingente chiarezza delle spiegazioni di Aveni.

Per ricordarci che le stelle «parlano di qualcosa che noi tutti abbiamo in comune: abbiamo creato le costellazioni per parlare di dilemmi morali e di regole sociali, di vicende pratiche e spirituali, dei nostri bisogni più immediati e dei nostri sogni più sfrenati». In un susseguirsi di narrazioni che rendono, così, omaggio «alla sconfinata fantasia della nostra famiglia umana».