L’editor e redattore approda al romanzo regalandoci una “favola per adulti” cupa e a tratti aberrante, dove schiere di animali si confrontano in uno scontro epico e gli uomini risultano portatori di una solitudine esistenziale e dolorosa. Ne abbiamo discusso con l’autore del volume, edito recentemente dai tipi de Il Saggiatore.
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_di Roberta Scalise
«[…] Così mi stringevo a lui ben sapendo che di lì a poco sarebbe tornato l’autunno: e pensavo che se Driano m’avesse rimesso nella terra fredda sarebbe stato il primo giorno d’autunno passato senza di lui da quando m’aveva salvato dai gattoni – e mi sarebbe sembrato il primo giorno d’autunno al mondo.»
Tra le sinuose e verdeggianti colline dell’Oltrepò pavese, un brulichio di animali si appresta a fronteggiare una battaglia epica. Da un lato, il pipistrello, la volpe, il pavone, il polpo, il barbagianni, la capra e la mucca, capitanati dalla talpa, lottano per estinguere l’umanità. Dall’altro, il lupo, il gatto, il gallo, la gazza ladra, il riccio, l’uovo, il topino, le tarme e il manichino, guidati, invece, dal gabbiano, vi si oppongono per trarla in salvo. A scatenare la diatriba, la richiesta antica e disperata di un uomo, Driano, il quale, dopo aver sottratto la talpa alle mire di alcuni gatti, si rivolse a quest’ultima auspicando aiuto e chiedendole, in un sussurro, di «ammazzare tutti» gli uomini e di far «sprofondare il mondo nel niente».
Si tratta dell’abbrivio de “Il primo giorno d’autunno al mondo”, romanzo d’esordio dell’editor e redattore Stefano Costa recentemente pubblicato dai tipi de Il Saggiatore. Definirlo romanzo, tuttavia, sarebbe riduttivo. Fin dai primi passi all’interno della narrazione, infatti, ad avviluppare il lettore vi è un intrico di suggestioni, stimoli immaginifici e fantasie in grado di delineare, ben presto, i contorni di un universo “parallelo”, dominato da sofferenza, solitudini e silenzi ricolmi di incomprensione. Un vortice confuso da cui deriva una favola per adulti cupa, torbida e aberrante, nella quale si confrontano – e fronteggiano fino alla morte – non solo gli animali, ma anche gli umani con cui questi ultimi si trovano continuamente in relazione, irretiti in risacche di negligenza, incapacità e distanze, fisiche ed emotive.
Peculiarità del testo è, inoltre, il suo impianto strutturale, specchio del prisma di relazioni innestate nel suo corso: il romanzo appare, infatti, alla stregua di un trittico, in cui le parti dialogano costantemente pur senza un raffronto diretto, ma solo mediante le connessioni simboliche che popolano le scene dipinte in ciascuna di esse. La vicenda permane la medesima, ma ogni sezione offre un punto di vista differente – animale, umano, corale. Se nella prima parte, quindi, veniamo a conoscenza della “Maschera dendromorfa” e delle sue declinazioni strazianti, nella seconda, attraverso la “vita a ritroso” di Driano, scopriamo la “Maschera zoomorfa” che ogni individuo reca sempre con sé. Fino all’acme finale, dove la “Maschera demoniaca” svela i grumi di dolore di ciascun personaggio coinvolto, conducendo il lettore nei meandri delle sue riflessioni e inevitabili abbandoni – a se stesso e agli altri.
Al centro della narrazione, tuttavia, vi è sempre lui, Driano, intriso di un male oscuro, ignoto e soverchiante rispetto al quale tutti gli altri protagonisti della vicenda – il fratello Francesco, la moglie Amata, la figlia Agata, lo zio Recaldo e gli amici Stefano e Agnese – si ritrovano, in qualche modo, inevitabilmente collegati, riconoscendosi in quell’abisso di incongruenze e scollamento dalla realtà che caratterizza il loro reticolato di crepe interiori. E di cui ogni parte del trittico riporta dettagli e ferite.
Uno spaesamento emozionale e di senso, dunque, reso sapientemente anche mediante il linguaggio, aulico, rigoroso e spesso volutamente labirintico e ostico: a significare quel perpetuo riferimento a una dimensione “altra”, quasi incantata, che, per sua natura, si rivela ineffabile, ambigua e, proprio per tale motivo, irrinunciabile e perturbante.
Ne abbiamo parlato con l’autore Stefano Costa, che ci ha svelato genesi e significati della sua opera prima.
In primo luogo, da quale “puntino” è scaturita l’esigenza di scrivere “Il primo giorno d’autunno al mondo”? E quali sono state le fasi precipue del suo processo creativo?
Innanzitutto, grazie per l’opportunità di quest’intervista. È qualcosa per me di molto importante. Allora, poiché mi chiedi, in maniera specifica, “da quale puntino è scaturita l’esigenza”, capisco tu abbia capito perfettamente che cos’è il “puntino”: esso è il luogo da cui nasce una determinata cosa, fisica o meno che sia, ed è sempre diverso. C’è un puntino, in te, dal quale è nato l’interesse per il mio testo. Quel puntino era anche dentro di me, non so dove, ma è come se quest’idea – quella di scrivere – in fondo fosse nata da lì, o addirittura non fosse mai nata veramente. C’è sempre stata e ha sempre risposto a un immaginario che ho dentro e che preme. La mia scrittura è un accidente, il romanzo è un accidente: è quel qualcosa che può concretizzarsi in una precisa forma sebbene ne esistano, potenzialmente, anche altre. Per me non esiste scarto tra un immaginario e il suo concretizzarsi. C’è solo l’opera e solo essa resta.
Le fasi della stesura sono state piuttosto lineari: all’inizio mi lascio dominare dalla materia, poi – a lungo andare – sono io a dominarla, almeno sino a quando l’ho piegata in maniera più “aderente” possibile all’immaginario stesso da cui essa scaturiva. Poi è venuto il lavoro con gli editor de Il Saggiatore, professionisti senza i quali il mio testo non avrebbe aderito con così tanta violenza a ciò che io ho dentro: processo per il quale non smetterò mai di ringraziarli.
Il romanzo è una sorta di “favola nera per adulti”, cupa, torbida e aberrante. Qual è stata l’urgenza che l’ha condotta a scegliere proprio questa forma? E quale il nucleo originario da cui ha iniziato a dipanarsi la vicenda?
Il nucleo originario è un’interrogazione sulla solitudine. Il romanzo è diviso in tre tempi (animali, un uomo singolo, gli uomini e gli animali nel loro collettivo), e ognuno di essi è come un mondo chiuso in sé. È la stessa storia narrata da tre punti di vista differenti. Ogni personaggio è solo non perché isolato dal mondo, bensì perché incapace di dividere il proprio dolore con gli altri. Ogni gesto è frainteso (ciò che si fa per fare del bene viene interpretato dal ricevente come un atto maligno e viceversa), ogni parola detta viene cancellata da un altro rumore, un insulto viene preso per complimento, un complimento per un insulto etc.: è la nostra – la mia – solitudine; l’essere preda di un mondo che ti vede cangiante. Dunque questa moltitudine di personaggi è come un “io” smembrato: da qui la forma di cui mi chiedi. Non poteva essere un romanzo lineare (sebbene vi sia una trama unica che coinvolge i vari personaggi): il mio immaginario doveva trovare forma in questa girandola.
La narrazione non cela i propri richiami al patrimonio di favole e fiabe che caratterizza la letteratura occidentale – dai fratelli Grimm ad Andersen, fino a Collodi e Baum. Quali sono state le fonti di ispirazione principali ai fini della creazione di questo “universo parallelo”? Accanto a quelle letterarie, poi, ve ne sono state anche altre di carattere cinematografico, artistico o similari (un dipinto, una canzone, la scena di un film…)?
Sicuramente quelle che hai citato ma anche, e forse con ancora più prepotenza, le Scritture, le storie di vita di Gesù, Maria e via dicendo. Più in generale, io ho sempre bisogno di un’immagine che mi strappi al mondo come lo conosciamo (o come lo conosco io): da qui, l’esigenza, in me, di gettarmi in “storie” che sviluppino una semantica diversa dalla mia, proprio come le fiabe e le Scritture stesse. Non so se rendo l’idea: lì cambia proprio la semantica. Gli ingranaggi che regolano la narrazione sono altri rispetto ai nostri.
Mi chiedi, poi, di eventuali film, e potrei citarti numerosi registi, solo che poi resto sempre incantato di fronte a tanti cartoni animati. Certamente su di me hanno agito opere come quelle di Dalí, per farti un esempio, con la sua tigre che sembra nascere dalla bocca di un’altra tigre, che, a sua volta, nasce dalla bocca di un pesce, che nasce da un melograno. Oppure potrei parlarti di quella “cosa” magnifica, che forse ha agito su di me con ancora più violenza, che è l’architettura: ogni opera architettonica, per me, è un mondo (non un micromondo, bensì un mondo vero e proprio). Zaha Hadid, Souto de Moura, la chiesetta di campagna di fianco a casa mia: ogni opera architettonica può chiudere in sé piste che non hanno nulla – apparentemente – a che fare con il presente; o che hanno a che fare con esso nella dimensione in cui ne fuggono. Mi riferisco a quadri (o affreschi) in una chiesa, alle statue in essa collocate, ai gradini di una scala, a come quell’ambiente è stato dimensionato e perché: se entro in una chiesa, per esempio, vengo sommerso da una miriade di storie (quelle dei santi, per esempio) che nascono a loro volta dal pennello di chi le ha dipinte; un uomo che in quella chiesa ha percorso scale; e quelle scale saranno state “progettate” (a seconda del secolo) da un architetto e/o da chi aveva il compito di progettarle; un “architetto” che ha agito così poiché magari forzato da esigenze politiche, culturali o religiose; che a loro volta hanno fatto sì che nascessero i quadri (o gli affreschi) o le statue lì collocate… e via dicendo in una catena senza fine. È lo stesso discorso sulla tigre di Dalí, che nasce dall’altra tigre etc.
A questo proposito, è stato scritto che il mio mondo è più infestato che abitato: e, ti dirò, è vero.
Nel romanzo assistiamo a uno scontro epico tra due schieramenti di animali. In base a quali criteri ha scelto questi ultimi e le loro alleanze?
Sinceramente i due schieramenti li ho delineati strada facendo: ci sono animali domestici e selvatici, ma anche animali di collina, di mare e così via. Tuttavia, non esiste una vera “simbologia” dietro di essi. Fanno eccezione solo la talpa, il pipistrello e il lupo: i primi due, che guidano lo schieramento di chi vorrebbe estinguere il genere umano, sono due animaletti ciechi (almeno nell’immaginario comune), mentre il lupo (o comunque un cane selvatico) viaggia con Francesco. Ma non vi è, ripeto, un’esigenza nascosta.
Ogni individuo, inoltre, reca con sé, o indossa, una maschera zoomorfa. A quale allegoria risponde questa correlazione uomo-animale? Intende rispecchiare la natura profonda dei personaggi coinvolti o è un mero esercizio di fantasia? E chi, secondo Lei, indossa maschere zoomorfe, al mondo d’oggi?
A proposito di maschere, poi, il testo è suddiviso in tre parti: “La maschera dendromorfa”, “La maschera zoomorfa” e “La maschera demoniaca”. Da dove deriva la scelta di creare tale trittico? E qual è il significato – filosofico, simbolico o spirituale – alla base di ciascuna sezione?
Rispondo a queste due domande in maniera correlata. Quello delle maschere è un assioma letterario (ve ne sono altri: il puntino, il chiudersi nel niente, il cordone nella schiena di Driano, per esempio). Ossia: un assioma letterario è ciò che può essere detto solo in quel modo (in un romanzo), ciò che ha quel significato solo se nominato in quel modo. (Per intenderci: l’ostia è sia il corpo di Cristo sia una cialda che può essere “mangiata”. Non è una cosa o l’altra. Il cordone che Driano ha nella schiena è sia un cordone sia uno strumento mediante il quale, legato al mondo, egli può capire da dove viene. Non è una cosa o l’altra. È entrambe le cose.) Ora, quella delle maschere è una regressione: l’animale indossa la maschera dendromorfa e regredisce (muore) alla condizione di vegetale; l’uomo indossa quella zoomorfa e regredisce al ruolo sociale che ha; il santo (il fratello di Driano) rischia di indossare quella demoniaca e tornare uomo. Indossare una maschera, in questo testo, non significa fingere (del tipo: io indosso una maschera per nascondere la mia vera natura). È semplicemente il passaggio da uno stato a un altro. Dunque non riesco a dirti chi oggi indossa una maschera, poiché l’atto di indossarne una non è figlio del bisogno di fingere di essere altro da chi si è. La maschera è uno stadio di vita, che può essere rigettato o no.
A un certo punto della narrazione, la strega riflette tra sé e dichiara: «[…] Allora forse mi sbaglio, forse la gente di questa collina mette amore anche per me – e lo fa nell’unica maniera in grado di durare: evitandomi». Nel corso della vicenda, i simboli del “male”, come il diavolo e la strega stessa, sono forse quelli che mostrano più umanità, desiderio di affetto e vulnerabilità. Come mai questa scelta “controcorrente”? Qual è la sua accezione?
Le parole che tu citi rispondono a quanto dicevo prima: un’azione viene sempre interpretata in maniera distorta, capovolta. Perché così è la (mia) vita. La strega, in realtà un essere che non ha mai fatto male a nessuno e che anzi ha sempre vissuto in base alla sua natura, arriva a credere che il fatto di essere stata lasciata ai margini della società di queste colline sia stato un atto d’amore. Come se le avessero detto, con i fatti: ti amiamo così tanto che, non potendo accettarti nei nostri meccanismi sociali, ti lasciamo libera di essere ciò che sei e non cerchiamo di interferire con la tua natura. È tutto ribaltato. Per il diavolo la stessa cosa. Lui stesso ha sempre vissuto una vita appollaiato sui rami, ma nessuno gli ha mai dato la caccia: gli uomini l’hanno ignorato, disprezzato, o l’hanno preservato dal male del mondo ignorandolo? In questo continuo ribaltamento di prospettive risiede la solitudine di ciascun personaggio.
Ogni favola, tradizionalmente, racchiude in sé una morale. In questa “favola per adulti” sussiste un insegnamento o un messaggio peculiare? Se sì, qual è quello sulla cui base ha deciso di costruire il romanzo?
No, non esiste nessun insegnamento o messaggio. Il romanzo è ciò che è, senza che il ragionamento secondo cui si sviluppa possa essere scisso da questioni estetiche, narratologiche etc. Senza che esso possa essere ridotto, per fare un esempio, a una sola frase. Insomma, come dicevo poco fa, alla fine resta l’opera, nella sua interezza.
Fulcro del testo è, infine, la solitudine di Driano: il suo male oscuro e incomunicabile è quello che risiede, potenzialmente, anche in ciascuno di noi? Una sorta di “cordone” cui siamo inevitabilmente legati?
Torniamo al cordone di prima. Driano è legato al mondo, e sin tanto che ha il cordone legato a sé riesce a capire quanta strada ha fatto nel mondo, dov’è andato, cos’ha combinato etc. Nel momento in cui in gabbiano recide il cordone, ecco che Driano non riesce più a capire chi è (quanta strada ha fatto nel mondo, dov’è andato, cos’ha combinato). Da qui cade nella sua malattia (che è una malattia che non ha nulla a che vedere con una malattia effettiva). Questo non è un romanzo sulla malattia. Dunque il cordone è sia un cordone vero e proprio, sia la consapevolezza che Driano ha di sé nel mondo. Dunque sì, ognuno di noi ha il suo cordone innestato: stringerlo, dargli delle scosse, proprio come si fa con la gomma dell’acqua in giardino, talvolta ci aiuta a capire qualcosa di noi, qualcosa che sta almeno nella strada che abbiamo percorso, come si dice in questi casi.
Quali saranno i Suoi prossimi progetti letterari? Il – secondo – lockdown si sta rivelando prolifico di idee e storie?
Ho un romanzo già scritto – una fiaba che narra di orsi – che dovrei rivedere, e che anzi vorrei rivedere perché era nato e si era sviluppato in un momento in cui, per ragioni professionali poi non concretizzatesi, vi avevo “messo dentro” troppa trama. Oggi vorrei farlo vivere in una dimensione più verticale, più profonda. Poi sto scrivendo un romanzo su due gufi – un padre e un figlio – che devono in qualche modo difendere un uovo dal mondo: questo, almeno nelle mie intenzioni, sarà un testo breve. Poi, insomma, le mie ossessioni per adesso sono sempre le stesse: gli animali, le solitudini, l’essere chiusi nel niente.