Questione razziale, identità, storia. Riemergiamo dal tuffo nell’America nera offerto dal Cinema Massimo a settembre, che ha esaminato, attraverso generi e autorialità, i nodi irrisolti della coscienza nera in immagini e suoni.
_di Alberto Vigolungo
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La condizione degli afroamericani è sempre stato tema centrale nel dibattito su cosa è l’America e sul volto che l’America dà di sé al mondo. L’iniziativa del movimento per i diritti civili, che raggiunse l’apice negli anni Sessanta del secolo scorso, è stato il laboratorio che ha ispirato la mobilitazione delle minoranze etniche e dei gruppi sociali più fragili per tutta la seconda metà del Novecento e uno dei motori propulsori della stagione del Sessantotto, dalla quale la società statunitense uscirà profondamente rinnovata. La portata di quella riflessione, che si è interrogata sul ruolo della comunità nera nella società e sulla definizione di un’identità in costante oscillazione fra consapevolezza della propria storia e tendenza all’omologazione, si ripresenta ciclicamente sul palcoscenico mediatico, legandosi perlopiù alla cronaca di fatti di violenza. Una tendenza che questi movimenti hanno fatto propria concentrando l’intero sforzo della loro propaganda nella denuncia della police brutality, problema manifestatosi ben prima dell’estate di ferro e fuoco che ha scosso i sobborghi del Paese in seguito all’omicidio di George Floyd, ultimo caduto di una strage inenarrabile.
Ma se nei casi precedenti si era sollevata anche la violenza urbana, questa volta la denuncia dell’uccisione di un uomo che non aveva avuto alcuna possibilità di difendersi è deragliato verso derive che hanno fomentato una vera e propria ondata generalizzata di cancel culture, fenomeno del quale Bret Easton Ellis, scrittore da sempre attento ai cambiamenti interni al proprio Paese, si è detto “scioccato”. Già, perché una cultura non muore mai da sola: pensare semplicemente di rimuoverla porta con sé l’idea di annullare altre culture, quindi anche quelle delle minoranze, e le memorie che le innervano. Idea pericolosa, perché pensare di poter fare a meno della memoria significa privarsi di un’arma importante contro il razzismo, forse l’unica possibile.
La rassegna «Black Power. Appunti per una storia del cinema afroamericano» ha provato a ricostruire vari aspetti di questa tensione, con un mix di titoli più o meno noti emersi nell’ultimo mezzo secolo, con l’eccezione di una piccola rarità, il muto Within Our Gates (O. Micheaux, 1920).
Potrebbe aver sorpreso, ad una prima occhiata, l’assenza di pellicole firmate Spike Lee e di altri nomi di primissima grandezza del cinema afroamericano contemporaneo, come quello di Barry Jenkins, ma la scelta di privilegiare cult ha dato ancora più respiro all’operazione, che si è rivelata tanto interessante quanto più ha cercato di scandagliare i dissidi interni all’identità black, il suo lungo e doloroso processo di formazione. Particolarmente significativi, in questo senso, quattro film rappresentativi di un decennio, gli anni Novanta, che videro un nuovo importante risveglio della coscienza nera, rivolta anche alle esperienze violente che pure caratterizzarono gli anni Sessanta.
In To Sleep with Anger (1990), Charles Burnett costruisce un racconto di formazione fortemente segnato dall’opposizione tra bene e male, presente e passato, omologazione e ribellione, sottolineata da citazioni bibliche e da metafore legate alla liturgia.
Protagonista è un ragazzo della classe media urbana che, nonostante un figlio e una famiglia amorevole, è ancora profondamente impegnato nella ricerca di se stesso: non è un caso che, per più di metà film, Samuel venga chiamato da tutti “Babe” Bro. A fare da contraltare è la figura del fratello maggiore, Junior, volitivo e attaccato alle tradizioni di famiglia, pupillo di papà Gideon. Sfuggente e inquieto, Babe è il personaggio in cui si manifesta il conflitto omologazione/ribellione: il titolo del film riflette proprio la condizione di un personaggio frustrato, che si sente incompiuto. A mettere definitivamente in crisi i valori di questa famiglia è l’arrivo di Harry, vecchia conoscenza dalla memoria affilata come il coltello che porta in tasca, che ricorda continuamente un passato scomodo, fatto di miseria e tribolazioni; Harry che, nell’interpretazione scintillante di Danny Glover, è più una presenza che un personaggio, un fantasma maledetto venuto direttamente dal profondo Sud, come evocato dalle note di un bluesman che reca sul volto tutte le cicatrici della vita (“Mi ricordi un sacco di cose sbagliate che ho fatto nella mia vita.”, gli ringhia Hattie, un’amica di famiglia che non lo vede da tanto tempo, come per spogliare il diavolo della sua maschera). Attratto dal fascino oscuro e magnetico di Harry, Samuel entra in un buco nero che lo allontana dai suoi cari per poi riavvicinarlo, più maturo. L’incontro con quest’uomo venuto da un mondo oscuro, lontano dagli agi in cui Gideon e la moglie Suzie hanno cresciuto i propri figli, dando forma al loro Sogno americano, assume per Samuel il valore di una catarsi, che passa per il sangue (nella rissa tra lui e Junior degenerata nell’accoltellamento della madre, intervenuta per dividere i figli) e infine per la morte accidentale di Harry, improvvisa, e provvidenziale. L’uscita di scena del personaggio è messa in relazione con l’immagine del padre di famiglia che scende le scale sulle proprie gambe, dopo un lungo periodo di malattia che l’aveva costretto a letto. In questo senso la morte di Harry appare davvero come la fine di un incantesimo. La crisi di Samuel si risolve dunque positivamente, con la riconciliazione della famiglia, e passa attraverso un confronto necessario con il male.
Se Burnett elabora sottilmente questi temi in un contesto familiare medio-borghese, intorno al quale molto cinema americano del decennio precedente aveva imperniato le proprie narrazioni, i lavori di Julie Dash e Haile Gerima interrogano direttamente la storia.
Il “peso” del passato, con i suoi riti, la sua magia, la sua religione, domina film come Daughters of the Dust (1991) e Sankofa (1993): entrambi viaggi nel tempo, entrambi scrigni di potenti visioni. Agli ambienti domestici che delimitano il mondo di To Sleep with Anger subentrano spazi dalla natura lussureggiante, pieni di luce e di colori: nel primo, un’isola al largo delle coste del North Carolina, dove per secoli prosperò una delle più antiche culture afroamericane; nel secondo sono quelli della Grande Madre Africa, la terra rimpianta cui gli antenati sono stati strappati e poi delle colline del Sud degli Stati Uniti, con le loro sterminate piantagioni. È al grido di sofferenza degli schiavi deportati che bisogna ritornare.
Sankofa è il viaggio visionario di una giovane donna, Mona, nel destino di un popolo, nel suo dolore e nel suo sogno di libertà. Nella visione avuta dopo essersi imbattuta in uno stregone-guardiano di un’antica fortezza che fungeva da punto di raccolta di schiavi, Mona diventa Shola, giovane schiava che lavora in una piantagione di canna da zucchero. Là condivide le sofferenze della prigionia con Nunu, donna sensibile e intelligente (che nelle sue appassionanti storie, raccontate alla sera vicino al falò, diventa Afriye), Lucy, sua migliore amica, e l’amato Shango, tra i capi della rivolta contro il sistema padronale. Personaggio complesso e ricco di motivi simbolici è Joe, meticcio nato dalla violenza subìta da Nunu sulla nave negriera che la stava trasportando nel Nuovo Mondo, quand’ella aveva quattordici anni. Simbolo di una società che si impone con la forza sull’altra, imbrigliato in una condizione indefinita, in Joe il conflitto omologazione/ribellione si manifesta nel contrasto tra ossessione per la religione cristiana (quella dei padroni bianchi) e conciliazione con il suo popolo e i suoi rituali. Una condizione che lo porta alla follia, fino all’omicidio della madre. Solo contemplando il cadavere di Nunu arriverà ad una scelta.
Mnetre in To Sleep with Anger il motivo religioso è relegato ad un piano metaforico (nelle citazioni bibliche di Harry e apparendo quasi in contrasto con il benessere della modernità), nell’opera di Gerima assume la forma concreta delle ossessioni di Joe, condizionando le sue azioni e divenendo cruciale nella dinamica del conflitto tra accettazione della propria storia e bisogno di omologazione. La religione occupa comunque un posto importante in entrambi i film, e la presenza del nome di Charles Burnett nei credits (come peraltro in Daughters of the Dust) traccia fra tutti un interessante collegamento.
La potenza di un film come Sankofa risiede tutta nel senso degli antenati, di un “fardello” storico trasmesso di generazione in generazione, nel senso del passato che le sue atmosfere riescono ad evocare: un senso vivo, ribadito a livello filmico dal lento movimento di macchina dal basso verso l’alto che conclude diverse scene, fissandosi nel cielo, il luogo degli uccelli, simbolo di liberazione e di rinascita. Dal ricordo di questo destino collettivo Mona riemerge con una nuova consapevolezza, che da quel momento costituirà un elemento centrale della sua identità.
Daughters of the Dust si assesta su una dimensione ancora più spirituale, sviluppandosi dalla voce narrante di una bambina che deve ancora nascere. Dimensione che si rispecchia innanzitutto in questo personaggio, che si manifesta come una visione lieta in sequenze dalle suggestive soluzioni tecniche, nell’uso dello step framing in particolare. Il racconto rallenta, lasciando quasi completamente spazio al mondo dei personaggi, con le loro speranze e amarezze. Fra questi, Nana Peazant, memoria storica della sua comunità, indomabile testimone di una storia che sta cambiando.
In questo film, la dicotomia si concentra nella lotta tra il fascino della secolarizzazione – che calamita i sogni degli ultimi abitanti dell’isola – e il richiamo della tradizione, di cui Nana è imperturbabile ancella: uno scontro che si radicalizza in Eula, futura madre della bambina, che sceglierà infine di restare e di costruire sulla terra degli antenati la sua famiglia. Comune denominatore di queste due pellicole è lo scavo in un universo prettamente femminile, nel raggiungimento di un nuovo grado di consapevolezza. Aspetto che assume una rilevanza ancora maggiore se si tiene conto del peso simbolico attribuito a questo elemento nelle culture africane.
Sul piano della satira sociale dai toni leggeri si colloca invece Car Wash (M. Shultz, 1976), sinfonia quotidiana di un manipolo di giovani squattrinati che lavorano in un autolavaggio lungo uno dei grandi boulevard nel cuore di Los Angeles.
Il campionario è assai vario, dal galletto di quartiere con i suoi chiodi fissi (tra questi, un bizzarro supereroe e la cameriera del diner antistante l’autolavaggio) al “fat boy” simpatico e bonario destinato a diventare un vero e proprio stereotipo della cultura black e all’ex galeotto che tenta di ricominciare e che fa un po’ da padre a tutti quanti, specialmente a Duane/Abdullah, emarginato di strada che sogna la rivoluzione. Quello di Car Wash è un mondo popolato da personaggi quasi caricaturali: se i neri caratterizzano questo vivace ambiente proletario, i bianchi sono rappresentati come deboli e un po’ stupidi, spogliati di ogni autorità, a cominciare dal proprietario della stazione di servizio, tale Mr. B, nome che non smentisce certo questa condizione.
Strizzando l’occhio alla blaxploitation, con un film il cui ritmo è scandito da pezzi disco, R&B, soft-funk trasmessi da una radio che non si spegne mai, il regista non si sottrae ad una rappresentazione della società americana del tempo, contrassegnata da una crisi economica, culturale, socio-politica profonda. In questa commedia divertente e movimentata, che si concede a tratti al musical, è proprio la musica a restituire frammenti del conflitto socio-razziale, configurandosi come esplicita dichiarazione di identità e di diversità, testimoniando una realtà ancora lontana dal melting pot.
I toni irriverenti della commedia sono scelti da Michael Shultz per realizzare un film in cui determinate problematiche si affacciano ancora più chiaramente, su tutte quella di una realtà giovanile abbandonata a se stessa. Stesso argomento, affrontato con un registro completamente diverso, è al centro di Juice (1992), esordio alla regia di Ernest Dickerson, che viene da importanti collaborazioni con Spike Lee.
La precarietà dei simpatici personaggi di Shultz cede il posto alla vuota quotidianità che frustra i sogni di gloria di un gruppo di ragazzini. Con Juice si sprofonda nei grigi vicoli newyorkesi, teatro di scontri fra gang e fughe dagli agenti di pattuglia. Niente più cullanti sonorità funky, solo rap, hip-hop, dub che sbattono in faccia il malessere del teenager dell’uptown, lo stesso narrato da Dr. Dre e da crew come Wu-Tang Clan. Anche in questo caso la musica, che caratterizza profondamente il linguaggio del cinema afroaericano, partecipa attivamente alla definizione di un ambiente. Non è un caso, a tal proposito, la presenza nel cast di Tupac Shakur, autore di un’ottima prova (la sua seconda davanti alla cinepresa), che morirà pochi anni dopo in circostanze non così diverse da quelle del suo personaggio. La musica è soprattutto espressione del talento di Quincy, che aspira ad una carriera da dj, inseguita nei contest che si tengono negli scantinati e nei magazzini del circondario. In bilico tra le attività criminali cui gli amici si dedicano con sempre maggior determinazione, attratti dal carisma di Bishop, e un sogno da coltivare in solitudine, Quincy concentra in sé il conflitto ribellione/omologazione, che per un ragazzo dei bassifondi significa soprattutto un futuro lontano dalla gang di appartenenza. Ci riuscirà, una volta uscito dalla scia di sangue che travolge, uno dopo l’altro, Raheem, “Steel”, infine Bishop. Il suo “no” ad una strada che sembrava segnata è ribadita in un primo piano fisso, che segue il rifiuto di un entusiastico “respect” che un ragazzo gli rivolge dopo aver assistito allo scontro finale con Bishop, e che quest’ultimo aveva inseguito per tutta la sua breve vita.
Con un salto temporale di più di vent’anni la rassegna ci porta in piena temperie “Black Lives Matter”, che fin dalla nascita ha concentrato ogni suo sforzo essenzialmente al contrasto della police brutality, questione intorno alla quale oggi si è focalizzato l’intero dibattito sul razzismo negli Stati Uniti, scuotendo i piani alti della politica così come della milionaria macchina della NBA. Proprio alla richiesta di istituzione di un registro delle vittime della violenza poliziesca risalgono le prime iniziative del movimento, sull’onda dei casi Eric Garner (2014) e Sandra Bland (2015). In questa quest’atmosfera è calato il sentire di un film come Monsters and Men (R.M. Green, 2018), con il quale i curatori hanno voluto indicare un legame con la più stretta attualità. L’assassinio di un uomo fermo all’angolo di una strada durante una perquisizione trae spunto da una cronaca ormai estesa. Nel film si succedono i punti di vista di tre personaggi: un giovane ispanico conoscente della vittima che, ripreso l’episodio con il suo smartphone, decide di denunciare, finendo per essere fagocitato da un sistema corrotto; un onesto poliziotto di colore il quale, dopo essersi confrontato in prima persona con il razzismo di alcuni colleghi, sceglie di rimanere fedele alla divisa, nonostante tutto; una promessa del baseball che, il giorno prima di un evento che lo potrebbe portare nel mondo del professionismo, decide di partecipare alla mobilitazione di piazza e poi di portare sul campo da gioco lo slogan della protesta.
In questo nodo irrisolto in cui si intrecciano temi come il diritto dell’individuo alla libertà personale e il ricorso alla violenza, esasperati da una componente razziale ancora molto viva nel Paese, si riflette una delle contraddizioni più profonde dell’America tutta, nazione che, come ha spiegato Furio Colombo, acuto osservatore delle “cose” d’Oltreoceano, nonostante tutto “ha sempre creduto nelle armi”.