“Storia di un boxeur latino”, uscito per Minimum Fax, regala un auto-ritratto atipico di un peso massimo del giornalismo nostrano.
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_di Alessio Moitre
Uno ci prova a negarsi l’invidia ma poi giunge Gianni Minà e ricominci a masticare amari pensieri. Mi spingo ad affermare che uno dei parenti del giornalista, nato a Torino nel 1938, sia l’Invidia stessa, che invece di avvelenare il sangue dell’allora ragazzo gli abbia donato i segreti per tramandarne il malessere. In fatti, in opere e in parole. Chiunque legga il libro di recente uscita per Minimum Fax: “Storia di un boxeur latino”, non potrebbe che convenire con il mio disappunto, che è anche supportato da testimonianze rese dall’interessato, che ricostruisce il tracciato di uomo e lavoratore in un testo incuriosito da fotografie di repertorio e private. La casa editrice ci informa che nel corso della lettura: “Sfila in queste pagine l’abbecedario di una generazione e di un secolo: Muhammad Ali, Jorge Amado, i Beatles, Fidel Castro, Adriano Celentano, Robert De Niro, Gabriel García Márquez, Dizzy Gillespie, Sergio Leone, Diego Armando Maradona, Rigoberta Menchú, Pietro Mennea, Mina, Gianni Morandi, David Alfaro Siqueiros, Tommie Smith, Massimo Troisi, Emil Zátopek. Di nome in nome prendono forma di romanzo le avventure di un ragazzo partito da un quartiere di Torino, in calzoncini corti, da una famiglia di origine siciliana, da un maestro in sedia a rotelle”.
Non è accettabile che tutto questo sia avvenuto nel corso di una vita ed è davvero improbabile che qualsiasi altro uomo “avvenga” con la capacità che possiede Minà, che dell’istinto, dell’intraprendenza e del talento giornalistico ha fatto la sua fortuna e la nostra dannazione nel renderci conto che ciò che ha raccontato è diventato storia comune, non schermata da uno televisore e nemmeno concessa da uno scatto, o interpretata da un commento ma nata in presenza di un essere umano che ha magherie simili a quelle nascoste dai folletti.
Ma è nelle interviste che avanzo sospetti di magia o di fenomeni oscuri. Dalle vicende scapestrate dei Beatles, alle sentite partecipazioni del talento e delle vicende di Cassius Clay, all’epica dell’incontro con Fidel Castro, in ognuna il nostro riesce ad expectorare tracce d’impensabile dall’interno degli intervistati, dove le viscere si rigirano ma allo stesso tempo vengono domate .Facile, verrebbe da affermare, ignorarlo finemente ma il suo operato è una chiara istigazione all’impegno, alla dedizione di un irrequieto uomo mai davvero rabbonito dall’ultima vicenda vissuta.
Logico dunque poter pensare, come da lui stesso affermato, che la Rai lo volle epurare, siccome ha “sempre rispettato tutti, allo stesso tempo non risparmiando nessuno”. Si capisce e ne rimango stordito da tanta svagatezza. Come poter sopportare, peggio se affiancati, un simbolo (perché di questo ormai bisogna parlare) di sconsiderata indipendenza atta al solo scopo d’ingenerare rancori. Davvero, nello scrivere le ultime righe della mia non recensione, non posso non sostare davanti alla storia, che Minà ha infilzato anche se finge di averla solo navigata come qualsiasi indigeno di un corso amazzonico. Il Sud America, ecco, forse in esso va rintracciato la forma più arcigna ed intaccante di minanesimo, in un continente che sembra stato compattato per lasciare spazio ad avventure e sconsiderate scoperte che, non giace mai indifferente ma strappa la quinta per affacciarsi al pubblico. Quanta invidia, quanta smaniante esistenza ci ha ricordato il giornalista, per questo ne richiedo la lettura del testo per constatare la fondatezza delle mie supposizioni.