Elsa Dorlin: quando “Difendersi” diventa un atto necessario

Dalle suffragiste anarchiche inglesi, pronte a reagire con il ju-jitsu, agli insorti del ghetto di Varsavia, fino alle pattuglie di autodifesa, alle vittime di molestie e alla tutela armata rivendicata dal Black Panther Party for Self-Defense, la filosofa francese Elsa Dorlin ripercorre, in un volume edito recentemente da Fandango Libri, le tappe principali di una “filosofia della violenza” che, ancora oggi, proclama a gran voce il diritto alla difesa di sé e della propria esistenza.

_di Roberta Scalise

«Le uniche volte in cui un afroamericano aggredito è riuscito a cavarsela, avvenne perché era armato e perché ha utilizzato l’arma per difendersi. Quando il bianco, che è sempre l’aggressore, saprà che ogni volta che fa mangiare la polvere alla sua vittima afroamericana corre il gran rischio di mangiare lui la polvere, avrà molto più rispetto per la vita di un afroamericano. Più l’afroamericano urla, indietreggia e implora, più dovrà farlo, più sarà ferito, umiliato e linciato»

No, queste non sono riflessioni emerse nel corso dell’ultimo mese di proteste. Non sono le parole di un articolo apparso sui giornali o di un post pubblicato sui social. Non sono le teorizzazioni di un leader, di un attivista o di un movimento per i diritti civili, come il Black Lives Matter. E non sono neanche ponderazioni recenti.

Sono parole vibranti, incisive, addolorate, e recano con sé il peso di più di cento anni di storia e di altrettante lotte sociali. Sono le parole cariche di rabbia e determinazione di Ida B. Wells, insegnante, giornalista e militante femminista abolizionista, tra le figure più importanti della mobilitazione contro il linciaggio scaturita negli Stati Uniti meridionali tra il XIX e XX secolo. Obiettivo della persecuzione: gli afroamericani, ҫa va sans dire, spesso – leggi: sempre – accusati ingiustamente di ruberie, atti criminali e, in particolar modo, violenze sessuali sulle donne bianche. Imputazioni infondate, esacerbate e umilianti, contro le quali, proclama a gran voce la Wells, è necessario che i neri ricorrano all’autodifesa armata. Ricorda qualcosa?

Appare, infatti, evidente che, nonostante siano intercorsi molteplici decenni da tali appelli, la condizione delle “black lives”, soprattutto negli Stati Uniti, non sia cambiata radicalmente come auspicato. Il germe del razzismo si è, ormai, tramutato in una pianta rampicante, e dipana le proprie diramazioni in tutti i settori della vita comunitaria. Ne è un emblema il recente omicidio di George Floyd, afroamericano 46enne ucciso per soffocamento dall’agente di polizia Derek Chauvin – e dalla corresponsabilità omertosa di tre colleghi – il 25 maggio scorso, a Minneapolis. Accusato di aver utilizzato una banconota falsa, Floyd ha, infatti, figurato come l’ennesima vittima della violenza ingiustificata e dominatrice del corpo di polizia americano: una forza minacciosa e quasi ineluttabile, di fronte alla quale l’uomo ha dovuto, inerme, soccombere, ritrovandosi, così, privato della possibilità di difendersi e di esercitare il proprio diritto all’esistenza. Risultando, letteralmente, senza voce.

Un caso, quello di Floyd, che avrebbe sicuramente trovato spazio tra gli episodi affini e assurti a esempi significativi contenuti nel testo di Elsa Dorlin, “Difendersi”, edito da Fandango Libri proprio una decina di giorni prima dell’uccisione dell’afroamericano e compendio ideale di tutte le lotte annose finalizzate al conseguimento di quelle «etiche marziali di sé» in grado di proteggere i dominati dalla forza bruta dei dominanti.

Ma che cosa significa “difendersi”? E da dove trae origine la pratica dell’autodifesa? Intento precipuo del volume è quello di tratteggiare i punti cardinali di una “filosofia della violenza” che, nel suo dispiegarsi, possa delineare le forme, i confini e i significati assunti nel corso dei secoli dall’“esperienza” presa in esame. A partire da una sua definizione: a differenza del concetto giuridico di legittima difesa, infatti, l’autodifesa costituisce una «tattica difensiva» cui i «corpi vulnerabili e violentabili» dalla violenza stessa possono attingere per «vivere o sopravvivere». Ne consegue, quindi, che «l’autodifesa non ha, paradossalmente, un soggetto», dal momento che quest’ultimo, afferma la filosofa francese, «non è preesistente a questo movimento che resiste alla violenza e di cui è diventato il bersaglio».

Il soggetto agente dell’autodifesa è, quindi, un individuo colto nell’atto stesso della difesa di sé, cui ricorre con violenza in quanto «necessità vitale, prassi di resistenza». In altre parole, il “sé” «non preesiste a questo movimento difensivo ma [ne] risulta, al contrario, come l’effetto continuato», e «orienta tutte le pratiche di sé – corporee, intellettuali, immaginative, emotive, linguistiche – verso la difesa da altri». Creando, in questo modo, un «soggetto slanciato […] continuamente costretto allo sforzo difensivo».

La «genealogia» dell’autodifesa risulta, così, costellata di corpi castrati, vincolati e coattivamente subordinati. Corpi che punteggiano e abitano tuttora la storia dell’uomo, e di cui costituiscono le onte inestinguibili annegate in abissi di vergogna. E ai quali, in un concatenarsi celere e prismatico di stralci storici, ideologie e aneddoti, Elsa Dorlin intende restituire voce e dignità.

Ida B. Wells

L’autrice, infatti, “lotta” con le parole e, nella sua «storia costellare dell’autodifesa», non immerge nell’oblio nessun oppresso. A partire dagli schiavi e dagli indigeni piegati dal colonialismo che, reificati e disarmati, furono privati della facoltà di attuare anche solo la mera «conservazione di sé», in quanto “proprietà” di un’egemonia inquieta e prevaricatrice. Al punto che, ricorda la Dorlin, «il diritto di conservare la propria vita apparteneva interamente al padrone, e ogni tentativo [di conservarla] era così trasformato in crimine». Di qui, un susseguirsi di tecniche aggressive e sistematiche che diedero luogo a «individui sempre presunti colpevoli», ossia «soggetti indifendibili perché reputati “pericolosi” e violenti […], proprio mentre si faceva il possibile per renderli impotenti a difendersi».

Uno schema ricorsivo che l’autrice si impegna a rintracciare nel susseguirsi dei secoli e della narrazione, ponendo, tuttavia, particolare attenzione alle ramificazioni maggiormente reattive emerse dalla schiera dei corpi disumanizzati. E tra le quali non si può fare a meno di citarne una delle più emblematiche, ossia: la costituzione, nel 1966, del Black Panther Party for Self-Difense, finalizzato alla «ripoliticizzazione internazionalista del diritto all’autodifesa armata contro la tradizione segregazionista statunitense e l’imperialismo». Diritto rivendicato da ogni afroamericano era, appunto, quello di poter circolare in possesso di un’arma da fuoco – proprio come qualsiasi cittadino americano –, garantendo, al contempo, la formazione di gruppi di militanti atti a seguire le pattuglie della polizia e intervenire, in caso di irregolarità, per tutelare gli individui coinvolti e ricordare loro i propri diritti. Una vera e propria «filosofia dell’autodifesa e della violenza», quindi, con cui dichiarare guerra «civile, sociale e di liberazione» a un sistema imperialistico cieco di fronte ai «diritti più fondamentali, da sempre negati e calpestati».

Mediante uno stile lineare, schietto e, a tratti, didascalico e un encomiabile e minuzioso lavoro documentaristico, Elsa Dorlin ricompone, così, le tappe di un itinerario – quello dell’autodifesa – che, tuttora, non possiede “norme” di comportamento standardizzate o universalmente riconosciute e legittime. E lo fa attraverso un percorso di ricerca e di approfondimento composito e accurato, corroborato dal riferimento a leggi d’epoca e a episodi concreti e sostenuto dalla densa disamina – talvolta un po’ erratica – delle proteste e degli appelli di tutti quei corpi respinti e denigrati che, nei secoli, sono stati aggiogati dall’insensata violenza di soprusi razzisti, sessisti ed egemonici.

Corpi che, ancora oggi, lottano per essere ascoltati, accettati e, soprattutto, difesi.