[INTERVISTA] Patrick Ricci: con le mie pizze voglio far riscoprire il piacere della convivialità

Tre spicchi Gambero Rosso per la pizza gourmet, numero 19 nella classifica di 50 top Pizza 2019 d’Italia, prima in Piemonte, una pagina intera gli è stata dedicata sul Times di Londra. Questi sono solamente alcuni dei riconoscimenti che Patrick Ricci, volando a un metro da terra con i suoi lievitati di qualità ha raggiunto da più di 10 anni a questa parte. Alla ricerca dell’impasto perfetto e dei prodotti che esaltano tutti e 5 i sensi, scegliere il suo locale a San Mauro Torinese è sempre una garanzia.

_di Elisabetta Galasso

Seguo l’istinto, i ricordi, gli stati d’animo. Studio. Gioco. Provoco. Mi piace conoscere i Grani, i prodotti,per poterli scegliere e miscelare con la stessa cura con cui ricerchiamo le parole per formare le frasi, affinchè tutto possa assumere un senso compiuto. Senza mai dimenticare che la pizza è figlia del pane e gli ingredienti frutto del lavoro di contadini, allevatori, pescatori ed artigiani. Ho infranto le regole, ho rotto gli schemi di quella che è una pizza tradizionale in cui non mi sono mai riconosciuto, portando a tavola, da sempre, la mia interpretazione personale. Senza pretese, meno che mai quella di piacere a tutti. Ritrovandomi, ancora una volta, controvento.

Questa la dichiarazioni d’intenti del nuovo menù di Patrick Ricci che si chiama appunto Controvento. Nuovo perché il locale di San Mauro Torinese è lo stesso, ma il nome e il concept sono cambiati. l’Ex Pomodoro e Basilico ora è diventato Patrick Ricci Terra, Grani, Esplorazioni.

Padre ciociaro, madre calabrese,  nato in Francia e cresciuto a Torino. Patrick è un autodidatta. Prestato dal caso, dice lui, e per fortuna, aggiungiamo al mondo della lievitazione, Patrick Ricci è un’autodidatta. Ha studiato a fondo la materia e ancora oggi il suo animo profondamente curioso, appassionato e libero da preconcetti, lo spinge a provare, esplorare, senza accontentarsi mai e cercando di essere fedele al suo credo: la qualità. Una qualità concreta fatta di prodotti che va  a scovare in giro per l’Italia a seconda delle sue esigenze e se non lo soddisfano, se li produce da solo come l’olio. Una qualità fatta di farine che mescola lui stesso e che cambia spesso a seconda del suo estro. Una qualità fatta di sincerità, senza inganni né pretese per ritrovare l’antico piacere della convivialità.

Patrick Ricci non si definisce né cuoco né chef, bensì fornaio. Come ha scoperto di saper mettere così bene le mani in pasta?

Lavoravo in un campo totalmente diverso da quello della gastronomia e fino a 10 anni fa a dire il vero, non me importava. Fino a quando, non mi sono ritrovato all’improvviso con un locale sulle spalle. Un amico mi aveva chiesto di aiutarlo nella gestione, ma alla fine sono rimasto solo. Era il 2008, anno di  forte crisi. All’inizio ho provato a seguire il vecchio menù, ma da subito ho compreso che  la situazione non era gestibile con la mentalità di allora, quindi ho deciso di rimboccarmi le maniche e provare a creare qualcosa che mi rispecchiasse totalmente.

C’è stata una  grande forza di volontà dietro quella scelta…

A parer mio, ognuno deve mettere il massimo negli obiettivi che si prefissa. Per quanto riguardava me o sopravvivevo adattandomi al conformismo o cambiavo radicalmente strada, studiando a fondo la materia. Certo, non è stato facile perché non esistono corsi per diventare pizzaiolo, esistono  solamenti  corsi non professionali e non riconosciuti spesso di sedicenti pizzaioli, portatori di una misteriosa e sempre diversa ricetta magica, che non rivelano mai, perché magica non lo è affatto.

Qual è stato il punto di partenza?

Sicuramente il punto di partenza è stato quello di studiare ciò che facevano i vecchi,  per imparare le basi di una buona pizza. Anche se fin dai tempi antichi si è sempre innovato. Poi ho attinto dalla mia di storia, poiché credo fermamente che il lavoro sia la massima espressione di ciascuno. E da qui nasce il primo contrasto con il mondo esterno che tradotto voleva dire: io faccio le mie pizze, uguali a quelle di nessuno.

Che cos’è la farina?

Quando iniziai a mettere le mani in pasta, mi rendevo conto che se ad esempio, aggiungevo dell’acqua in più o viceversa non ne mettevo, l’impasto cresceva. Lo stesso discorso accadeva con il lievito. Così feci una domanda che può sembrare banale, al mulino dal quale ai tempi mi servivo: che cos’è la farina? La farina è grano macinato. Quella risposta non mi bastò.  Quando si pensa al grano bisogna rendersi conto che ne esistono di molteplici e ognuno nasce per una funzione. Parallelamente, mi chiesi quanto stavo mettendo del mio in ciò che facevo, in definitiva prendevo un sacco sconosciuto, lo mettevo nell’impastatrice e aggiungevo acqua, lievito, sale e se sbagliavo le dosi, l’impasto lo portavo comunque a casa. Ho capito quindi che il mulino mi dava un prodotto già pronto che deve funzionare al cento per cento e certamente il mulino fa bene il suo mestiere, ma la prerogativa del fornaio è quella di conoscere le farine alla perfezione e se vuoi creare qualcosa di tuo devi imparare a  selezionare i grani. In Italia esistono 270 tipologie di grano il che significa che esistono circa 1350 tipologie di farine con proprietà e caratteristiche diverse.

In cosa differisce l’impasto della pizza rispetto agli altri? E quali tipi di farine sta utilizzando ora?

L’impasto della pizza che a differenza degli altri impasti è particolare perché è composta per metà da panificazione e per l’altra metà da trattamenti meccanici (va stesa, tirata, allargata) e non c’è un solo grano in grado di dare alla pizza tutti gli elementi che cerco ossia, struttura, elasticità, morbidezzza, croccantezza, profumi e gusti;  quindi li mischio insieme  per arrivare all’impasto che ritengo soddisfacente. Attualmente sto utilizzando farina di grano Bologna, farro monococco, segale e grano saragolla (un grano  abruzzese molto tenero). Presto poi, particolare attenzione al glutine perché è contenuto in quantità diverse a seconda del grano e privilegio impasti ricchi di fibre.

E i prodotti?

Cerco di trasmettere la mia firma attraverso i prodotti perché ogni ricetta che propongo è studiata. Negli anni ho instaurato rapporti direttamente con piccoli agricoltori di diverse regioni d’Italia. Le mie pizze infatti, non hanno certificazioni DOC, DOP,ICG perché penso che non siano sempre sinonimo di qualità. Le certificazioni vengono acquistate dai produttori appunto per certificare la bontà della loro produzione, ma la verità è che la produzione viene controllata in minima parte e la certificazione diventa un’etichetta che paga anche il consumatore.

Quali pizze si possono trovare ora in carta?

Le arcaiche in cui ripesco dalla storia ciò che si mangiava   e lo ripropongo in chiave moderna mostrando l’evoluzione nel tempo. Come la Pane & cipolla: cipolla cotta sotto la brace, la metto nel roner, l’arricchisco di besciamella e timo e diventa più appetibile. Le rappresentative sono quelle diventate un “must” per i clienti come la pizza Sockeye con burratina, salmone selvaggio Sockeye, ravanelli, perlage di tartufo nero, salsina di prezzemolo. E infine le evocative che altri non sono che i miei voli pindarici trasformatisi in pizza, come la C’era una volta in America con pulled pork con insalata condita con olio e.v.o., sale e aceto di mele, sesamo tostato, salsa BBQ e crema di arachidi.

La clientela apprezza il menù?

Il mio menù cambia nel tempo, ma  molto lentamente. Le persone che vengono ad assaggiare le mie creazioni non devono avere lo shock di vedersi cambiare il menù da una volta all’altra. Così come cambia gradualmente l’alimentazione nel corso degli anni lo stesso fa il mio menù. Non seguo pedissequamente nemmeno la stagionalità, perché il nostro corpo ha bisogno del cibo in funzione delle sostanze che gli servono e non per il tempo che fa. Certamente, se offro un fungo ora piuttosto che in agosto, la differenza si sente, ma se voglio mangiare ciliegie a dicembre e sono di qualità, perché non mangiarle? Bisogna tenere presente che il commercio è sempre esistito: il colonialismo è nato per necessità di cibo, le persone non potevano vivere con i prodotti di stagione perché le malattie provenivano appunto in gran parte dai prodotti del territorio, spesso malsani.  Lo stesso discorso vale per il km0. Io qui a km0 posso dare ai miei clienti solo i pali della luce.

La pizza è considerata un cibo povero e come tale, nell’immaginario comune il cliente si deve saziare e pagare poco…

Non trovo nemmeno una giustificazione valida a considerare un cibo di serie a o di serie b. Perché devo per forza abbuffarmi con ricadute sulla salute se vado a mangiare una pizza? La scienza ce lo dice: dobbiamo mangiare meno e meglio. Il discorso di base è che il cliente medio non si informa e pretende di mangiare ciò che gli piace soprattutto in pizzeria. Poi ognuno segue la sua filosofia, io preferisco andare a prendere i pomodori dal contadino e avere la certezza quasi assoluta che il mio prodotto non ti farà male. Non penso di avere inventato nulla, faccio semplicemente quello che cucinerebbe una mamma o un papà a casa. Tutti gli ingredienti sono validi, bisogna solo saperli combinare nel modo corretto. Se mangiando la mia pizza, il giorno dopo non ti senti appesantito e se questo significa spendere un po’ di più, ma guadagnarci in salute, credo di stare percorrendo la strada giusta.

A differenza di molti chef, a lei non piacciono le luci della ribalta. Che rapporto ha con i suoi colleghi?

Io mi butto letteralmente fuori dai riflettori, desidero che chi viene nel mio locale lo faccia per cuorisità e non per assecondare la moda del momento. Perché  questo è un lavoro come come l’operaio o l’impiegato e tale deve rimanere. Il cuoco dovrebbe passare più tempo in cucina che fuori e non può essere osannato come se fosse un guru. Credo che nel nostro settore si stia assistendo ad una spettacolarizzazione del cibo senza precedenti. I miei colleghi li rispetto tutti, ma ho sempre rifiutato collaborazioni  perché di base sono un pizzaiolo, nel mio locale non faccio cucina nè dolci. Non è una forma di superiorità, anche se il mio punto di vista può essere criticabile, ma penso che ognuno debba andare sulla propria strada. Per lo stesso motivo non faccio corsi, ma aiuto benvolentieri i miei clienti se vogliono sapere qualcosa in più sul procedimento della pizza e do consigli se vogliono farla a casa.

Come gestisce il successo e le critiche?

Mi fa indubbiamente piacere avere ricevuto nel tempo attestati di stima a livello nazionale e internazionale, per me è uno stimolo a dare sempre il meglio. Tutto però deve essere preso nella giusta misura. Alla fine della giornata quello che conta è riuscire a pagare i miei dipendenti e vivere sereno sapendo di averci messo tutto me stesso. Ho ricevuto critiche aspre perché nel 2010 ho deciso di intraprendere la strada che oggi quasi tutte le pizzerie stanno percorrendo. Io ho rotto gli schemi, ma non li ho rotti per farmi notare, ma perché il concetto di pizzeria dell’ epoca, non mi apparteneva. Oltre alla rottura sull’impasto e i prodotti, nel mio locale non prendo prenotazioni per più di 6 persone, da me non si viene per fare “caciara”, non ci sono ricambi, chi prenota può stare seduto tutto il tempo che vuole e  il cibo deve darti piacere e creare convivialità.

Suppongo che quando va a mangiare fuori non sceglie la pizza, ha un posto del cuore?

Giro molto quando si tratta di cibo, ma non ho un posto del cuore, ci sono tanti posti dove mi piace andare a mangiare, dal locale fighetto, a quello dove do precedenza al sapore e giudico un posto dopo un po’ di giorni, perché un locale  è buono non tanto per quello che  ti vende all’istante , ma quando ti ritorna in mente un piatto e hai voglia di mangiarlo di nuovo.

Torino è culla di tantissime nuove aperture, com’è realmente la situazione gastronomica nella nostra città?

 Gastronomicamente Torino è indietro come poche città. Attualmente siamo ritornati agli anni ’80 e noto che si ripropongono piatti sulla falsa riga  dei gamberetti in salsa rosa oppure della banana split (piatti iconici di quegli anni) e si sta facendo junk food a tutto spiano. Il livello si è omologato facendo la smorfia alla moda, se si osserva, ora quasi tutti propongono la pizza gourmet, ma il cibo è peggiorato, si vende molto marchio e poca sostanza. L’attore principale invece, deve essere quello che mangi. Ad esempio, la burrata sta nel 2019 come la rucola stava nel 1980. La si trova ovunque e nel 99% dei casi la burrata di Andria che hanno quasi tutti in menù è un prodotto industriale. Non demonizzo l’industria ma spesso la si camuffa dietro il nome e non la si può vendere come bontà assoluta. Il problema di  Torino è il torinese: chiuso, abitudinario, poco ospitale, quello che chiude durante le vacanze, quello che non valorizza il territorio. Molte volte mi sono fatto la domanda del perché io ho successo a livello nazionale e internazionale, ma non territoriale e la risposta è proprio questa. La città non è aperta al cambiamento come sembra, è certamente un’officina di cambiamenti, ma qui nascono le idee che poi hanno successo altrove. Siamo l’unico popolo in Italia in cui se un torinese raggiunge dei successi, non lo porta come emblema, ma lo critica costantemente.E di conseguenza Torino è esclusa dal turismo.

Quindi lei non è un anticonformista?

 A Torino tutto quello che va oltre degli status che si sono incancreniti nel tempo diventa anticonformista. Io non mi considero un anticonformista come molti mi dipingono e non mi metto nemmeno contro il conformismo. Penso anzi, che ci sia un conformismo buono da salvaguardare e uno pessimo che vada distrutto. Recentemente ho letto Martin Eden di Jack London e c’è un passo nel libro, in cui Martin, il protagonista che cerca di emergere dalla dai bassifondi (siamo a Oakland agli inizi del ‘900) perché si innamora di Ruth, una ragazza dell’alta borghesia. Per conquistarla, la porta ad assistere a un’opera lirica. Uscendo, lei  entusiasta dell’opera e della voce dei due protagonisti, chiede a lui se gli sia piaciuta. Martin ribatte dicendo che avrebbe ucciso i due cantanti, non per la voce, bensì per il ruolo sbagliato in cui sono stati chiamati a rappresentare l’amore. La ragazza rimane esterrefatta nello scoprire che Martin non apprezza quelle voci così incantevoli che a lei avevano suscitato emozioni uniche. Martin riprende e spiega a Ruth che, nel momento in cui guardava i due cantanti, lei quasi un metro e ottanta per novanta chili e lui, con il suo metro e sessanta e il viso unticcio, sbracciarsi come pazzi, l’effetto che lo spettatore riceve non è dei migliori; affermando  convintamente che l’estetica in una scena d’amore idilliaco come quella, deve essere di vitale importanza. Questo per attestare senza ombra di dubbio, che il protagonista nel libro non accettava quella sorta di conformismo che non permette  di andare oltre le convenzioni, che seppur necessarie, devono essere verosimili. Lo stesso succede un po’ nella mentalità generale di questa città, ancorata al vecchio, senza però farne tesoro e guardare in avanti dando valore a un territorio ricco di gusti, contaminazioni e cultura.

Io sono io e non ho intenzione di far dipendere i miei gusti dal giudizio concorde dell’umanità. Se c’è una cosa che non mi piace, non mi piace e basta; e non c’è una ragione al mondo per cui debba far finta che mi piaccia, soltanto perché buona parte dei miei simili l’apprezza, o finge d’apprezzarla. Datemi il vero, oppure niente. L’illusione che non riesce a convincermi è solo una bugia plateale.

Martin Eden, Jack London

 

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Tutte le foto sono di Luca Appiotti