Lo “strano” caso di Steve Bannon

The Brink getta un po’ di luce sulla figura di riferimento della destra populista, proiettandola in un orizzonte politico dai contorni ancora non ben definiti. Il nuovo documentario di Alison Klayman traccia la parabola di un uomo che ha fatto dell’attivismo propagandistico la sua missione, con l’obiettivo di fondare un movimento “di rivolta globale”. 

_di Alberto Vigolungo

 

Negli ultimi anni il nome di Steve Bannon si è fatto ampiamente strada nel dibattito politico contemporaneo, venendo rimbalzato a più riprese da tv e carta stampata. Salito alla ribalta come uno dei principali fautori (anzi l’unico, a suo dire) della vittoria di Donald Trump alle presidenziali USA del 2016, Bannon ha fatto sentire la sua voce in Italia nei giorni della formazione del governo Lega-5 stelle, in aperto sostegno a Salvini (da lui indicato come “modello” per tutti i populisti europei) e alla vigilia delle elezioni europee della scorsa primavera. Un legame che si è fatto ancora più stretto quando Bannon scelse di stabilire il proprio quartiere generale d’oltreoceano in un’antica certosa del Lazio, prima che un’inchiesta giornalistica rivelasse le irregolarità della concessione da parte del ministero competente. Proprio nel nostro paese ha concesso interviste a importanti testate, in cui professa “la rivolta del popolo” contro le élite politiche e finanziarie del Vecchio continente, auspicando, in sostanza, la fine del progetto europeo. Meno si è sentito dopo le  europee, che hanno rappresentato una battuta d’arresto per i cosiddetti “sovranisti”. Improvvisi affondi e silenzi prolungati, tra questi due estremi oscilla la retorica bannoniana, divenuta modello più o meno dichiarato di una certa politica.

L’incipit di The Brink non risparmia una full-immersion nel mondo di questa personalità controversa, diretto nell’accompagnarci nella sua routine così come nell’introdurre ad uno stile di narrazione e ad un montaggio rapidi, che la regista Alison Klayman riprende dall’altra sua professione, quella di giornalista. Intervenendo di tanto in tanto con la sua voce fuori campo, non mancando di strappare un sorriso all’uomo che ha accettato di farsi filmare durante riunioni, telefonate, viaggi in treno e in aereo, comizi a Manhattan e negli angoli più sperduti d’America, per mesi. Di Bannon la documentarista americana racconta innanzitutto la dinamicità, cosa che a prima vista non sembrerebbe appartenere a questo sessantaseienne dall’aspetto pigro e dallo sguardo talvolta vacuo, in giacca stropicciata e pantaloni di tela grezza. In effetti, l’immagine pubblica di Steve Bannon è abbastanza simile a quella privata, in cui tutto, persino l’arredamento del suo piccolo e disordinato appartamento a Washington D.C., è predisposto ad un solo fine: propaganda, propaganda, propaganda. Particolari che stridono, appunto, con il dinamismo del personaggio. Ma che, come mostra il film, sono specchio della sua visione.

In realtà, l’impegno politico è soltanto l’ultimo approdo della parabola del personaggio. Manager di lungo corso alla Goldman Sachs negli anni ’80 (con il cui direttore di allora, John Thornton, mantiene un solido rapporto di amicizia e stima), passato per la Harvard Business School, poi imprenditore in proprio, Bannon proviene direttamente da quell’establishment finanziario che tanto combatte. E dal quale ha attinto molto della sua visione attuale. Insomma, sotto diversi aspetti  discutere del “fenomeno” Bannon è un po’ come cercare di stare a galla in un mare di contraddizioni. Ma di questo è perfettamente consapevole anche l’interessato.

Come ricorda il documentario, Bannon entra nello staff di Donald Trump negli ultimi mesi della campagna elettorale 2016 imprimendo una svolta decisiva nella corsa del miliardario newyorchese alla Casa Bianca, soprattutto dal punto di vista della comunicazione. Molto influente in materie di economia e sicurezza, in poco meno di un anno la sua figura diventa ingombrante per lo stesso Trump: nell’agosto del 2017 i disordini di Charlottesville (ispirati da una nuova ondata di suprematismo da cui l’amministrazione trumpiana non aveva fino ad allora preso le distanze), con il loro carico di odio e sangue, segnano la fine della permanenza di Bannon nel consiglio del tycoon, nonché l’inizio di una deriva oltranzista che lo porta a diventare il “guru” di giovani esponenti della classe repubblicana più conservatrice e ad allacciare contatti con i principali leader antisistema europei (Farage, Salvini, LePen, Orban) e non (Duterte e capitalisti cinesi dissidenti). “Sloppy Steve”, questo il nomignolo affibbiatogli da Trump in uno dei suoi tweet dopo l’allontanamento, diventa così “cane sciolto” a disposizione della propaganda della destra nazionalista e populista internazionale. Ed è in quel periodo che Klayman ottiene di accendere la cinepresa, alla scoperta del Bannon uomo e politico.

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Il film si compone di tre parti, più un’appendice finale che mostra le reazioni di fronte all’esito del voto di Mid-term dell’autunno scorso. Un anno in cui l’ex consigliere del presidente USA passa dalla condizione di una delle tante vittime dell’ego di Donald a quella di “star” misteriosa che a Venezia, nei giorni della Mostra del Cinema durante i quali viene presentato un film a lui dedicato, fa della lussuosa suite d’albergo in cui alloggia la base di briefing giornalieri con il suo staff – di cui è membro anche lo stralunato nipote Sean, che lo vediamo servire un improbabile frullato di verdure all’inizio del film – e con vari esponenti politici, tra i quali riconosciamo una Giorgia Meloni stizzita per le domande di un giovane giornalista che rovescia in faccia a lei e a Steve il cocktail a base di razzismo e xenofobia di cui si nutre, in misura variabile, la loro retorica. Se le espressioni della Meloni tradiscono un certo nervosismo, Bannon appare piuttosto incerto nel ribattere all’intervistatore, in particolare quando si parla del potente banchiere George Soros, che nella narrazione bannoniana ricorre come il capo di un complotto internazionale. In fondo la prossemica, la vaghezza delle  risposte, unite alle piccole fissazioni che emergono qua e là nel corso del documentario, enfatizzano le carenze strutturali  di un discorso che “Sloppy Steve”  porta avanti con intento quasi messianico.

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Al di là delle fragilità e delle contraddizioni che segnano il personaggio, Steve Bannon rappresenta sotto diversi aspetti un soggetto politico postmoderno, in un mix ideologico che accoglie elementi diversi: retorica della vecchia sinistra no-global, contro-verità da esporre come un mantra a partire dal complotto più grande, quello dei media, “nazionalismo economico” in fondo non così lontano dalle posizioni di una destra che ebbe in Ronald Reagan il suo figliol prodigo, quasi quarant’anni fa… Nondimeno, tenta di spiegare la sua battaglia ricercando una legittimazione in ideali politici “forti”(vedi culto del presidente Lincoln) e religiosi, cosa che lo accomuna ad una retorica più tradizionale. Una strategia  che, in ogni caso, Bannon costruisce soprattutto attraverso l’uso dei media digitali, attingendo a piene mani nel repertorio delle fake news e di una retorica basata sulla dialettica del “noi e loro”. I bersagli sono chiari: multinazionali e immigrati, visti come minacce per la civiltà occidentale sul piano economico ed etnico-culturale. Soprattutto in quest’ottica Bannon avrebbe suscitato l’interesse delle destre nazionaliste europee, anche sull’onda della diffusione di teorie come quelle del francese Renaud Camus (“Grande Sostituzione” e affini), divenute ben presto fonte di ispirazione di molta propaganda. In sostanza, applicare l’America First ad un disegno più ampio, transnazionale: questo l’obiettivo di “The Movement”, nato con l’obiettivo di “aggregare la gente in una rivolta globale”.

Sebbene a poco più di un anno dalle elezioni presidenziali negli Stati Uniti la riconferma di Donald Trump appare abbastanza scontata, una prima battuta d’arresto sancita dai risultati del voto di metà mandato, con la parziale riscossa di un Partito Democratico che punta sull’elemento giovane e multietnico, ha aperto più di qualche crepa nella strategia di Steve Bannon, proiettandola verso un futuro incerto: su questo aspetto si concentra l’ultima parte del film, che mostra lo scoramento con cui Steve prende atto del rilancio dell’opposizione e della sconfitta di molti candidati repubblicani da lui sostenuti. A questi si aggiungerà l’esito delle elezioni europee, alle quali i sovranisti avevano affidato la speranza di una “spallata” decisiva all’UE.

In tre anni, a partire dal “trionfale” 2016 della Brexit e di Trump, il progetto bannoniano è destinato ad esaurirsi? È davvero presto per dirlo, dati anche i ritmi con cui viaggia la politica oggi. Lontano da facili letture, pur riportando le ossessioni e la superficialità di un uomo che non mostra alcuna difficoltà a stare davanti alla cinecamera, il documentario di Alison Klayman non pretende di fissare Steve Bannon entro limiti netti, ma ne tratteggia un piccolo ritratto, raccontando l’uomo e offrendo ulteriori spunti sui fattori di successo della politica attuale.  

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