Naturografie alla Wild Mazzini: dati organici per orizzonti artificiali, dati artificiali per melodie organiche

La Data Art Gallery Wild Mazzini propone una personale dell’artista toscano, il cui lavoro indaga le tracce del tempo e la complessa alchimia del caso.


_di Giorgio Bena

Agire la natura o lasciarla agire, rappresentarla o lasciare che essa si rappresenti? Entrando negli spazi di via Mazzini 33 si potrebbe avere l’impressione di trovarsi di fronte ad una mostra di astrattismo naturalista, un’estetica ossimorica che troppo spesso mostra il fianco al compiaciuto sadismo critico del sistema dell’arte.

Ma le Naturografie (termine coniato dall’artista stesso) di Roberto Ghezzi hanno decisamente qualcosa in più da raccontarci. Queste opere affondano le proprie radici in una pratica sperimentale attraverso la quale l’artista si è costruito una conoscenza quasi alchemica dei materiali con i quali lavora, e traggono valore e forma da una componente processuale dominante che a tratti richiama e a tratti ribalta certe esperienze della Land Art o dell’Arte Povera nostrana.

Conoscere questa pratica è essenziale per ammirare ed apprezzare il lavoro di Ghezzi: innanzitutto l’artista tratta le proprie tele -generalmente di grande formato- con un particolare composto chimico (la cui formula custodisce gelosamente) a base di elementi naturali, poi le immerge in specchi o corsi d’acqua in punti che gli permettano di mantenerle stabili per lunghissime esposizioni – settimane o mesi. In questi due passaggi, apparentemente semplici se descritti in questi termini, emerge una conoscenza profonda dei propri strumenti artistici costruita empiricamente.

Il risultato sono delle tele con valori tonali contrapposti e separati da un’area liminale: da un lato il marrone intriso nella tela dal flusso dei sedimenti subacquei, nel quale può capitare di trovare anche la traccia del passaggio di qualche organismo acquatico; dall’altro il blu dato dalla reazione del suo composto chimico con l’aria, la luce solare e l’umidità del luogo, anch’esso “macchiato” dalle interferenze dell’ambiente.



Tra queste due componenti emerge una fascia dove a tratti esse sembrano convivere, a tratti una sembra prevalere sull’altra, a tratti nessuna delle due sembra esistere: un orizzonte artificiale nato dall’agire della natura che non è rappresentazione del visibile ma espressione organica dell’essenza delle cose.

Se accettiamo l’orizzonte come linea del confine visibile tra la terra ed il cielo, le Naturografie di Roberto Ghezzi ci consegnano attraverso una singola immagine il confine invisibile tra la terra ed il cielo. Al di sotto di esso, il dominio dell’acqua e della terra, al di sopra il dominio dell’aria e della luce.

Un agire processuale che come già accennato richiama ma ribalta le esperienze alcune esperienze Land Art o poveriste, nelle quali gli artisti con il proprio lavoro hanno influenzato il divenire delle cose naturali (Walter de Maria, Giuseppe Penone); nel lavoro di Ghezzi è invece proprio il divenire delle cose naturali a dominare e guidare lo sviluppo del processo, e l’artista non si limita che a creare le condizioni perché esso diventi traccia tangibile e visibile, dando una forma alla stratificazione di un dato che è tutto naturale.

La mostra di Roberto Ghezzi è impreziosita dall’installazione sonora autogenerativa The Quietest Voice di Riccardo Tesorini, il cui approccio non è dissimile sebbene essi siano separati dalle sfere di azione: visivo ed analogico Ghezzi, sonoro e digitale il lavoro di Tesorini.

Quattordici voci digitali crescono e si sviluppano seguendo un algoritmo ricorsivo basato sugli studi del biologo e botanico ungherese Aristid Lindenmayer, che alla fine degli anni ’60 teorizzò un sistema di simboli (L-system) in grado di descrivere il comportamento delle cellule vegetali e modellare i processi di crescita dello sviluppo delle piante. Attraverso questo algoritmo secondo un ciclo di 10 minuti la melodia di The Quietest Voice cresce, si sviluppa e muore come un’organismo vivo, per poi rinascere in forme sempre differenti.

Il dialogo tra queste due visioni artistiche è in grado di creare un cortocircuito concettuale e percettivo che merita certamente di essere sperimentato: dati organici per orizzonti artificiali, dati artificiali per melodie organiche.