Antonio Dimartino: questo piccolo miracolo rinascimentale

Una lunga ed accorata conversazione col cantautore siciliano intercettato all’Hiroshima Mon Amour nel corso del suo ultimo tour per promuovere il disco “Afrodite”. Tra Radiohead e Banco del Mutuo Soccorso, entriamo in punta di piedi nel mondo di questo “ragazzo con le fattezze di Gesù Cristo” che per alcuni rappresenta “quello che Borges era per il suo quartiere di Buenos Aires”…

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_di Vincenzo Lerose

Vendere la musica di Dimartino ad un palermitano appassionato di musica è come convincere il Maestro Miyagi che esiste una pietanza chiamata riso. È superfluo.
Un mesetto fa mi sono ritrovato a cena a Milano con Toti Di Dio, un mio amico di Palermo che ho conosciuto in uno dei sei, a tratti allucinanti, viaggi che ho compiuto nell’estremo sud italiano lo scorso anno. Mentre mangiavamo ho iniziato a tessere le lodi di “Afrodite” questo “album incredibile di Dimartino” un cantautore siciliano che Toti non poteva certo perdersi “tantopiù che siete della stessa città! Devi assolutamente ascoltarlo!”…

Insomma mentre ero pronto a descrivere questo piccolo miracolo rinascimentale traccia per traccia il buon Di Dio mi placa bonario dicendo “Macche, scherzi?” e mi mette al corrente del fatto che lui non solo conosce Antonio Di Martino dal liceo, il Don Bosco di Palermo (“lo invidiavo tantissimo perchè in classe da lui c’era una ragazza con un seno enorme”) ma che c’è stato un momento in cui organizzava dei con concerti per Emergency dove non era assolutamente inusuale vedere transitare i Famelica (primo gruppo di Di Martino) o i F-male Croix (band di Simona Norato, la sua chitarrista).
Quando a fine serata io e Toti ci separiamo la curiosità è tanta, passo i giorni che mi separano dal concerto di Torino ad ascoltare tutti gli altri dischi del cantautore palermitano, e, essendo partito dall’ultimo, un album di canzoni ritmiche, afose, mediterranee, non posso dire di sorprendermi nello scoprire il DiMartino più rilfessivo, romantico e acustico “pre-afrodisiaco”, ma rimango sicuramente colpito dal netto stacco stilistico che ha comportato l’ultimo giro negli studi di registrazione, guidato da Matteo Cantaluppi.
Nei giorni che seguono a sorpresa vengo invitato da S.B. al concerto di Milano, che vedrà anche salire Brunori SAS a sorpresa per unirsi nell’esecuzione di Daniela Balla La Samba.
Mi godo un gran concerto.

I quattro sul palco sono compatti, evidentemente uniti da una grande amicizia, tutti cantano e ciascuno di loro è l’ingrediente segreto della riuscita di un live. E procedo da sinistra a destra.
Angelo Trabace, l’unico “forestiero”, l’unico non siculo (è infatti di Irsina, Basilicata) è il più “maestro” del gruppo: è un concertista classico dandy, suona le tastiere e i piano della scaletta con un trasporto travolgente, ed è composto ma rock, elegante, acqua e sapone, senza però mai il timore di spettinarsi mentre si scatena nei momenti in cui tutti pestano duro.

Segue Antonio Di Martino, voce e basso.

Questo ragazzo con le fattezze di Gesù Cristo [e il padre falegname tra l’altro] sul palco è calmo, presente, non si perde in nessuna mossa ammiccante, canta molto bene e non si scorda a casa nessuna delle note alte che raggiunge con facilità nelle sue registrazioni, e posso solo immaginare quale soddisfazione debba aver provato come bassista a poter finalmente portare sul palco delle linee di basso ricche di riff portanti e centrali (come quelle protagoniste in quasi tutti i brani di Afrodite)… Suonare il basso in questo tour deve sicuramente rappresentare un elemento di novità per lui.
Poi i compagni fedeli di una vita.
Giusto Correnti suona le batteria come se fosse un banchetto di quelli dove non sai con cosa cominciare ad ingozzarti, coi fusti ci fa l’amore, ed ecco così giustificato l’esteso stretching che lo vede protagonista tra una chiacchierata e l’altra nel backstage diversi minuti prima dello show.

Chiudo con quella spezia speciale, con quel gusto che non sai definire ma che senza non sarebbe la stessa cosa, solamente che qui quel gusto ha un nome, e un cognome: Simona Norato.
Simona è sicuramente un comprimario che non puoi non notare in un live. Suona con destrezza la chitarra e le tastiere, quando non gioca con Giusto per mezzo di un tamburo.
Quando suona i riff di chitarra vibra in funzione della lunghezza delle note, si irrigidisce per frazioni di secondi come posseduta per dare un senso agli accenti funk, e la tastiera e lei sembrano vivere l’una per l’altra. E poi -scusate se mi permetto- ma è una essere umano di una bellezza speciale: come una nobile guerriera del rock popolare, messa di profilo alla sinistra di Antonio, marcia determinata tra un brano e l’altro, con la schiena dritta, lanciando dalle occhiate taglienti agli altri tre compagni di avventura perchè nessuna luce, nessun rivolo di fumo o qualsiasi altra minchiata (avrei usato ‘fronzolo’ in realtà ma ‘minchiata’ è regionalmente più accurato) la distragga dal portare a termine la missione. Fortissima, e incantevole quando canta in I Calendari la parte che nel disco è di Cristina Donà

Certo poi Dimartino live non è solo Afrodite, un disco già pregno di esistenza, di rapporti difficili, di rapporti felici, di nascite, “le cose da cambiare, le tende da lavare”… Fotografie sonore tratte dal resto della carriera di DiMartino creano un’atmosfera commovente, nel concerto di un cantautore la cui poetica è estremamente diretta e vicine alle esperienze di ogni essere umano: arrivederci, addi, ricordi di gioventù e della vita nella provincia si rincorrono mentre la band si guarda indietro suonando Venga Il Tuo Regno, Maldetto Autunno, Ormai Siamo Troppo Giovani, Non Siamo Gli Alberi….


Potrei quindi andare avanti a lungo cercando di rendere l’idea ma non lo farò: questo show è ancora in giro e ho l’impressione che tornerà quest’estate,  quindi non potete che andarlo a vedere o recuperare quello che potete in rete. Se vi basta.
Ad ogni modo a fine concerto mi complimento con i ragazzi, rompo il ghiaccio con Antonio, grazie alla nostra comune conoscenza palermitana, e gli chiedo se possiamo ritrovarci a Torino la settimana dopo per due chiacchiere e un paio di foto, lui acconsente sorridente e ci diamo appuntamento all’Hiroshima Mon Amour per Giovedì 28 Febbraio.

Passa una settimana, sono a Torino e sono le sette di sera.
Mentre cerco una porta aperta per entrare il riff di bass di Cuore Intero suona da solo all’infinito e il soundcheck è agli sgoccioli, Antonio mi saluta dal palco e ci si da telepaticamente appuntamento a più tardi.
Nel backstage è ora di cena, il morale è alto, alcuni tormentoni del recentissimo Sanremo reggono conversazioni e accendono le risate, e assieme alla band e ai tecnici ci sono anche il manager Matteo Zanobini e il compagno di scuderia Lucio Corsi, venuto in visita nei giorni in cui sta ultimando il suo prossimo disco.
Antonio gira lo spazio dedicato agli artisti, a cui si accede per mezzo di un corridoio tappezzato da una quantità di manifesti dei concerti dello storico club di Via Bossoli, sorride mentre saluta via video la figlia, mostrandole l’ufficio itinerante di papà. Dopo cena ci separiamo momentaneamente dalla ciurma in uno stanzino adiacente, io accendo il registratore, Antonio una sigaretta e ha quindi luogo la conversazione che vi riporto qui di seguito.

Il nostro amico Toti Di Dio mi ha detto che a Palermo la gente è orgogliosa di te e dice, cito testualmente “Antonio è per Palermo, quello che Borges è per Palermo” [Palermo è un quartiere di Buenos Aires in cui Borges ha vissuto a lungo. A questa battuta Antonio ride, io, che ho fatto l’ITIS, quando mi è stata riferita al ristorante me la sono dovuta fare spiegare, e solo allora ho riso, con la faccia di uno che però si sente uno scemo]

Tra l’altro Borges poi per un periodo ha anche vissuto anche nella nostra Palermo… Lui spesso parlava dell’Argentina quando era via dall’Argentina. A me piace parlare di Palermo quando sto a Palermo, non ce la farei a parlare della mia terra con quella vena nostalgica.

Che musica ascoltavi da ragazzo?

La musica che ascoltavo era la musica che arrivava nella provincia di Palermo, alla metà degli anni 90, dove non c’era internet, dove non c’era niente, quindi arrivava la musica che arrivava in tutta la provincia italiana: i Pink Floyd, Pino Daniele e Vasco Rossi [ride]… Questi tre…
Nel mio paese tutte le cover band erano o cover band di Vasco, o cover band dei Pink Floyd o di Pino Daniele… Non si poteva scappare… al massimo ogni tanto trovavi la cover band dei Dream Theater e quindi trovavi quelli super tecnici però oltre a questo nulla…
Quando andavo a scuola ascoltavo molto i Radiohead. Da quando sono usciti con Pablo Honey, i Radiohead sono sempre stati una band molto costante nella mia vita, sono quelli che sento di avere capito di più, quelli che mi sono arrivati maggiormente e l’uscita di OK Computer è stato davvero un momento segnante… E ovviamente ascoltavo il grunge, un po’ di Nirvana, di Smashing Pumpkins, Soundgarden e tutta la musica degli anni ‘90 da MTV… Però i Radiohead mi hanno illuminato e più che tutto mi piacevano le loro melodie, il modo di armonizzare, e il modo di suonare del bassista, i suoi vuoti e quel suo modo di suonare il basso irruente ma educato.

Ma come musicista e compositore tutto è cominciato coi Famelica, giusto?

Ho cominciato a fare musica seriamente con i “Famelica”, che era nato come gruppo anti-mafia, perchè la nostra provincia era abbastanza violenta e quindi noi per reazione cercavamo di scrivere di quanto ci capitava attorno, partecipando a tutte le manifestazioni studentesche, le feste dell’unità, i concerti di Emergency e così via. Abbiamo appoggiato tantissimo la campagna di Rita Borsellino quando è scesa in campo, stando al suo fianco anche nelle province della Sicilia più ostiche.
Come Famelica abbiamo inciso due dischi, uno uscito nel 2002 “Storie poco normali” e uno nel 2006, “Maschere Felici”… E in realtà poi ne avevamo anche un terzo pronto che però non è mai uscito perché non avevamo i soldi per farlo uscire e nessuno voleva investirne di suoi.

Dev’essere una sensazione terribile…

Ma sai, non avevamo interlocutori a livello discografico giù, eravamo molto isolati, Palermo era diversa a livello musicale, e noi eravamo tutti di Palermo: non c’erano produttori, ci ritrovavamo a mandare sempre demo in giro, a rincorrere festival improbabili che poi magari ci facevano arrivare sino alla provincia di Roma in cambio di una pizza… Di certo non è la gavetta che ci mancava…

Mente facevo i compiti a casa ho visto anche la vostra esibizione al concertone del Primo Maggio nel 2009.

Sì, e pensa è che proprio dopo il Primo Maggio che ci siamo sciolti… E quella è stata un’esperienza singolare: avevamo vinto un concorso per arrivarci, nessuno ci ha portati.
C’eravamo noi e i Bud Spencer Blues Explosion, però mentre loro avevano già un discografico e un ufficio stampa noi eravamo noi, e noi solo.
Siamo saliti a Roma col treno, con la tastiera avvolta in una tovaglia, dormendo tutti da un amico e una volta giunti la ricordo che quell’anno in Piazza San Giovanni ci suonava Vasco e dunque anche trovarsi dopo tutte quelle fatiche a Roma, arrivare e sentire 600mila persona urlare “Ooooleee – Olè Olè Oleeeeee Vascooo Vascoooo!” è stato piuttosto traumatizzante. Dopo quel concerto scattò qualcosa che ci portò allo scioglimento: sentivo che qualcosa non andava e che qualcosa doveva cambiare.

E com’è avvenuta la transizione dai Famelica a DiMartino?

In realtà il merito del disco del nuovo corso va molto a molto a Simona [Norati] e Giusto [Correnti], che facevano già parte dei Famelica. Grazie a loro abbiamo potuto col tempo potuto sviluppare un suono di base fatto di basso, batteria e chitarra che era molto ‘nostro’ e quindi i presupposti per una nuova avventura c’erano già.

Una sera tramite la mia ragazza, che conosceva Cesare Basile, abbiamo suonato alla Casa 139 a Milano e ancora ci chiamavamo Famelica, benchè fossimo solo rimasti noi tre, e suonammo davanti a cinque spettatori paganti: Basile, Lorenzo Corti [chitarrista molto attivo nella scena indipendente italiana] e altri tre persone che non conoscevamo… Basile ci vide suonare e ci disse “Voglio produrvi un disco” essendo quindi di fatto il primo oltre a noi a credere nella nostra musica, e così di comune accordo decidemmo di accantonare Famelica, che non ci ispirava più come nome e passare a Dimartino e tutto partì da li, dando origine a “Cara Maestra Abbiamo Perso”.

La tua musica è una musica estremamente italiana, qual è quindi il tuo rapporto con la musica e con la musicalità italiana?

In realtà sono sempre stato legato alla musica italiana e paradossalmente mi sono innamorato prima del prog italiano rispetto ai cantautori, per me Il Banco Del Mutuo Soccorso è arrivato prima di De Andrè o di Dalla, che è arrivato davvero in un secondo momento…
I miei genitori però non erano amanti della musica, e non si ascoltavano dischi in casa, a volte senti dire nelle interviste “grazie mio padre che aveva i dischi di Endrigo…” ma da me queste cose non c’erano, solo mio fratello che era più grande di me mi passava dei CD, però sempre di musica anglofona, quindi alla musica italiana ci sono arrivato successivamente da solo.

Arriviamo ad oggi, io ti ho conosciuto con Afrodite per poi andare a ritroso e noto che c’è uno stacco netto da tutti i tuoi dischi precedenti, molto acustici e romantici, sino ad ora. Afrodite è estremamente sensuale ed evoca paesaggi di natura sessuale, di notti afose meridionali in cui si balla e suda… Come sei passato dalle atmosfera contemplazione sofferta a queste dinamiche di ballo e reazione?

Avevo voglia di ascoltare le cose che avevo da dire in un altro vestito.
Certo, avrei potuto fare uscire un altro disco come quello precedente, avrei potuto fare “Giorni Buoni” tutta col piano e un basso tranquillo ma non lo volevo, perché mi ero stancato e forse si era esaurito il mio interesse per quella fase proprio come accadde per i Famelica. E’ capitato che un giorno mi sono svegliato dicendo “Devo fare qualcos’altro altrimenti mi annoio”. E naturalmente mi hanno aiutato molto sia Matteo Cantaluppi che Angelo Trabace, perchè è stato un album arrangiato in tre questo, anche se nei miei provini già c’erano quei segnali.

Nei miei provini “Ci Diamo Un Bacio” era già come la si ascolta ora, anche se abbiamo aggiunto la cassa in quattro solo successivamente, mentre ad esempio “Cuore Intero” è stata arrangiata interamente in studio con Cantaluppi che ha avuto l’intuizione di questo tappeto creato da una chitarra col phaser che si mantiene per tutto il brano: un espediente che abbiamo riutilizzato anche in altre canzoni del disco.

Ed è stato un processo sofferto quello di abbandonare gli stilemi del passato per cambiare pelle? O è piuttosto stato liberatorio, divertente?

No direi assolutamente divertente, e anche rapido, l’album è stato registrato in tre sessioni tra Maggio e Novembre del 2018, impiegando una ventina di giorni in tutto, un periodo abbastanza breve per un disco molto prodotto come questo, e questo perchè Matteo Cantaluppi è una persona veloce e super pragmatica che va dritto all’obiettivo. E quando ci siamo incontrati ci siamo detti “Ok, proviamoci e se scatta qualcosa facciamo il disco, altrimenti se non scatta niente ci salutiamo” ed è stato un approccio onesto che ho davvero apprezzato, perchè lui avrebbe potuto prendere in consegna le registrazioni a prescindere dall’intesa che c’era tra noi e invece ci ha concesso un tentativo, e poi per fortuna quel qualcosa è scattato dato che i primi pezzi per primi che abbiamo prodotto sono “Cuore Intero” e “Giorni Buoni” che già nelle prime fasi erano praticamente come sono nel disco, dando già una direzione piuttosto chiara al lavoro da portare avanti.
Quindi mi sono fidato molto avendo però in garanzia un approccio che mi era piaciuto da subito.

Mi ha molto colpito il passaggio da una sequenza di album in cui sembra che tu abbia la testa dentro al torace, dischi molto introspettivi a questo in cui sembra che tu dipinga seuqenze cinematografiche, penso alle prime battute ritmiche e notturne di “Liberarci Dal Male”… O a “La Luna E Il Bingo”

Ed è questo che mi è piaciuto! Io credo che il cantautorato debba fare questo: un minimo di rischio te lo devi assumere. In quello che dici e in come fai i dischi.
Se c’è una cosa che critico di alcuni degli autori d’oggi è che si assumono pochi rischi rispetto alla musica che fanno, non rischiando mai a seguito di un disco che ha è andato bene, ripetendo una formula.

Io ad esempio sono un grande fan di Leonard Cohen e lui è uno di quelli che ha rischiato maggiormente, tu poco fa citavi Phil Spector [in una conversazione in cui parlavamo del glorioso documentario The Wrecking Crew] e Cohen in un momento in cui era famoso per un approccio scarno e poco prodotto ebbe comunque il coraggio di abbandonare la via comoda per affidarsi all’uomo che ha inventato il Wall Of Sound.
Sarebbe Bello Non Lasciarsi Mai”, è stato un album che andò particolarmente bene, che fu prodotto da Dario Brunori, che mi ha dato una mano grandissima, indirizzandomi verso alcune direzioni, anche a livello di scrittura, indossando quei pezzi, assumendo i rischi che si assume un produttore artistico… Bene, con le dovute differenze tra me e Cohen, dopo quel disco ho scelto di fare qualcosa di estremamente diverso, ho fatto un EP elettronico del 2013 [Non Vengo Più Mamma], e non è andato bene, però mi sono assunto un rischio, il rischio di fare un EP sulla “morte dolce”.

Mi rendo anche conto che questo rischio è stato condiviso anche dalle persone che lavoravano con me, anche Matteo [Zanobini, il suo manager] si è assunto un rischio insieme a me dicendo “Ok, facciamo questa cosa” sapendo che era una cosa assai diversa ed è stato bello essere seguiti in una scelta controcorrente.

Afrodite, la dea della bellezza, e un disco che gronda sensualità: eppure il titolo ha un origine più tenera.

Di base a me il nome Afrodite piaceva molto e come nome lo sentivo molto vicino alle tematiche di questo disco, mi veniva spesso in mente l’immagine di questa dea dai colori fluorescenti, non saprei bene come altro dire a parole, ma avevo questa visione mentre facevo questo disco.
La notte che è nata mia figlia poi, uscendo per fumare una sigaretta, mi sono trovato a contemplare il Castello di Venere sul monte Erice e la fascinazione per quella visione, unita alle suggestioni di cui ti ho parlato mentre registravo il disco mi hanno permesso di approdare ad un titolo definitivo, anche se il nome in se esercitava su di me un notevole magnetismo.

Quant’è difficile, crescendo in un paese epicentro del sangue versato durante gli omicidi di mafia [Antonio è cresciuto a Misilmeri], riuscire a coltivare il romanticismo e quanto è difficile invece non cadere nell’auto-referenzialità, finendo, anche fisiologicamente, a parlare solo di quello?

Io di mafia non riesco più a parlarne, mi sembra sempre di sminuire l’argomento e sul concetto di anti-mafia, che ultimamente ha fatto quasi più danni della mafia, avrei tante cose da ridire… Quindi di mettermi in bocca delle parole che in qualche modo possano rappresentare l’anti-mafia non me la sento e preferisco che questa cosa scaturisca da alcune immagine delle mie canzoni, in modo implicito…

Come in “Ci Diamo Un Bacio”…

Sì, esatto “uno sputo di sangue sporcarti le Adidas”, parla di me ragazzino che sente l’esplosione delle bombe che hanno ucciso Falcone e Borsellino, quella cose c’è,  ma non lo scriverei mai in maniera esplicita e vorrei che rimanesse sullo sfondo, lo stesso sfondo dove convivono la bellezza della Sicilia, ma anche il tritolo e il rumore delle pistole.
Poi salvaguardare il romanticismo è vitale: nella mia adolescenza c’è stata quella violenza ma anche tanta tenerezza, dovuta ad incontri, al valore dell’amicizia… Io ho sempre gli stessi amici da trent’anni anche perchè quelle atrocità, quella guerra, ci hanno molto unito.

Mi piace molto la tua introduzione di alcuni brani durante il live, in cui descrivi visioni, i due adolescenti carichi di vodka davanti alla sala bingo per “La Luna E Il Bingo” e quella della ragazza che balla sul tetto della Panda in una stazione in cui ti sei fermato a fare benzina per “Daniella Balla La Samba”, e questo secondo me rafforza la natura evocativa, e cinematografica dei tuoi brani.

L’idea del cinema e delle canzoni mi è sempre piaciuta molto, e in passato ho utilizzato direttamente alcune scene di film che ho apprezzato per raccontare un momento all’interno di una mia canzone. Come ad esempio la scena di “Gatto Nero, Gatto Bianco” di Kusturica in cui c’è un personaggio che balla con una sedia e che io ho ripreso nella prime parole di Cartoline Da Amsterdam

Per concludere, la Sicilia è una regione che è stata ripetutamente colonizzata e rappresenta un esempio di integrazione naturale. Quanto è difficile accettare per te l’attacco all’idea di integrazione in atto in questi giorni per scopi politici?

Per me è impossibile accettarlo: un siciliano vero a mio parere non può accettare che vengano bloccate delle persone in mezzo al mare, e non è certo una questione politica ma semplicemente morale.

Il concerto di Dimartino si conclude con “Niente Da Dichiarare” un brano del 2015, tratto da “Un Paese Ci vuole” in cui si immagina un mondo senza distanze, confini e dogane.

Tutte le foto – tranne l’immagine di copertina, la grafica promozionale e l’illustrazione –
sono di Vincenzo Lerose