[INTERVISTA] Salvatore Spampinato ci racconta Il gatto di Chagall

Quattro chiacchiere con Salvatore Spampinato sul suo romanzo d’esordio Il Gatto di Chagall (edizioni SuiGeneris, 2018): da Parigi alla finestra fino potere della letteratura, della parola e dell’immaginario.

_ di Silvia Ferrannini

Che luce emana, che voce ha l’altra metà della vita – quella che si nasconde tra i fiori, che compare tra i tavoli di un bar, che fa ridere di meraviglia di fronte al polline tirato via dal vento?

Salvatore Spampinato, catanese classe 1990 e dottorando in Letterature Comparate a Torino, nel suo romanzo d’esordio Il Gatto di Chagall (edizioni SuiGeneris, 2018) racconta di Gatto, inetto impiegato di banca diviso tra bar con gli amici e ossessione per gli orologi, che di punto in bianco comincia a vedere quel che lo circonda come in uno stato allucinatorio. Spuntano fuori memorie, si confonde il presente, si affacciano possibilità di futuro. La realtà gli gioca dei sabotaggi talmente ben congegnati che Gatto si chiede com’è che “l’universo diventava un mostro contro di lui che non lo capiva”. E che c’entra poi quella figura femminile, quella familiarissima sconosciuta di Dresda?

Planando tra Hikmet e Rilke, Pirandello e Svevo, Freud e Brecht l’autore de Il Gatto di Chagall lascia semplicemente che l’arte costelli e informi la vita del suo protagonista, avendo ben presente che un romanzo, in mano a chi i romanzi li ama davvero, è ancora l’unico modo che l’individuo ha per conoscere se stesso.

Qui di seguito Salvatore ci racconta l’energia segreta del suo lavoro, la sua genesi e la sua spinta liberatoria. Niente angosce: fate un bel sorriso ché il mondo è un tubetto strizzato che schizza colore.

Il romanzo ha una matrice molto surrealista, e il punto di partenza è il dipinto Parigi alla finestra di Marc Chagall (1913)…

Sì, il romanzo nasce da Parigi alla finestra perché nella storia ogni elemento del quadro (il gatto, i fiori, Parigi oltre la finestra dai colori surreali) è una variabile del racconto. Quindi non è un romanzo su un gatto appartenuto a Chagall (sì, me lo hanno chiesto…), ma in qualche modo gioca fra il rapporto esistente tra letteratura – ciò che uno legge e può immaginare – e l’arte figurativa e la capacità di citarlo. C’è naturalmente Chagall, ma c’è anche De Chirico, Dalì, l’arte figurativa del primo Novecento in genere. Oltre a ciò vi è anche la letteratura, la poesia europea da Calderón de la Barca attraverso Celan fino a Pascoli e a Brecht… Sono riferimenti che vivono nel romanzo fra i flussi di coscienza del protagonista e una sorta di “interruzione” che spinge il lettore a riferire il racconto a tutto un contesto, una strutturazione dell’immaginario. Quel che soggiace al romanzo è questa duplice idea di immaginario riconducibile da una parte alla facoltà quasi bambinesca dell’uomo di sognare, meravigliarsi, immaginare mondi diversi, dall’altra a una vera e propria storia frutto di una certa sua strutturazione – se leggi di orologi che si sciolgono il rimando a Dalì è pressoché scontato, così come se pensi a dei manichini il pensiero va a De Chirico: così è anche con la letteratura e l’arte in genere.

Dunque tu sfrutti l’arte figurativa per studiare questo rapporto fra la creazione di un immaginario e il modo in cui esso agisce nella quotidianità dell’individuo?

Sì, in un certo senso. Da un lato c’è la capacità liberatoria e in qualche modo libertaria della letteratura, dall’altro invece è evidente che questa libertà è anche prigione, poiché, volenti o nolenti, la nostra capacità di inventare è sempre in qualche modo condizionata da quel che abbiamo letto, che abbiamo visto, da millenni di storia che ci si riversano addosso.

Una curiosità che sorge spontanea: perché proprio quel quadro di Chagall?

Semplicemente mi aveva colpito in modo particolare, e avevo esigenza di scrivere determinate cose, (sensazioni, emozioni, situazioni) e per “darmi una regola” nel raccontarle ho cominciato così, da Parigi alla finestra. Poi la narrazione va verso altri lidi, ma per avere una struttura iniziale da cui prendere le mosse ho preso le suggestioni che mi ha dato quel quadro. Chagall mi piace perché da una parte il suo sguardo sul mondo e la sua arte sono quasi naïf, dall’altra nelle sue opere si rintracciano numerosi riferimenti precisi alla Bibbia, a determinate coordinate storiche del suo tempo… Il suo è un modo di fare avanguardia con un immaginario fanciullesco. Nel romanzo ho cercato di coniugare queste due spinte: creare qualcosa di fortemente visionario entro un marchingegno del quale cerco continuamente di razionalizzare, di conferire un’architettura precisa a quel che narro. Perciò, ad esempio, ci sono riferimenti che ricorrono, e tutto nel complesso tiene. C’è il calcolo, ma come sempre in arte non può essere solo matematica: c’è la meraviglia del mondo, il chiedere continuamente “perché” del bambino.

Dunque i tuoi personaggi vivono in una realtà ben strutturata ma racconti più che altro il modo in cui la percepiscono…

Gatto, il protagonista, inizia ad avere visioni oniriche, quasi delle allucinazioni. La sua realtà così inizia a distorcersi, e le sue visioni hanno a che fare con quadri, poesie, riferimenti letterari in genere, canzoni. Gatto è un impiegato di banca talmente inetto da rimandare ogni sua scelta all’orologio, lo interroga continuamente. Intorno a lui ruotano vari personaggi, in particolare Dresda, la figura femminile principale. Gatto da una parte è attratto da questo personaggio, ma d’altra parte non capisce perché, dato che si tratta di un’estranea. Dresda è per lui familiare e aliena insieme. Dal terzo capitolo in avanti si capirà meglio perché gli è familiare… Gatto è talmente perso nelle sue confuse allucinazioni che quasi perde la memoria. La riacquisterà a sprazzi nel corso della narrazione, quando alcune sue visioni si riveleranno essere ricordi.

Il tuo romanzo quindi è molto stratificato. Da una parte guardi al modo in cui l’immaginario può creare una narrazione nella vita di ciascuno, dall’altra c’è un focus sulla memoria, la percezione, le sensazioni e le vie inusuali che talvolta seguono…

Sì, infatti il più delle volte nel romanzo domina il flusso di coscienza. Gatto cammina sempre, e ogni dettaglio fa riaffiorare in lui visioni e ricordi.

L’esigenza di studiare la relazione tra immaginario collettivo e individualità di un vissuto nasce da una volontà personale o da una tua curiosità suscitata anche dagli studi che fai?

Le due cose non sono facilmente scindibili, si sovrappongono a tal punto che separarle è davvero difficile. Ho iniziato a scrivere sulla scorta di una spinta personale ma non nel senso che m’identifico con un personaggio in particolare, ma che riverso nel romanzo alcune componenti del mio vissuto e le domande che mi pongo su di esse. Scrivendo, però, non posso far finta di non aver letto niente, ed ecco gli specifici riferimenti letterari ad esempio a Svevo e a Pirandello, gli ammicchi alla psicanalisi con cui spesso gioco, la letteratura primonovecentesca sulla città e sulla metropoli. E quindi il romanzo si basa proprio su questa riflessione: quanto quello che rappresento è la mia visione delle cose e quanto è prodotto delle categorie attraverso cui io leggo le cose che mi succedono e che voglio raccontare.

Quindi più che la storia di un personaggio solo c’è la volontà di raccontare dei meccanismi per così dire universali?

Sì, psicologici, sociali…più che universali forse collettivi.

Ai personaggi femminili del romanzo viene attribuito il nome di una città (Dresda, Lima, Bisanzio). Come mai?

È un rovesciamento di Calvino: Le città invisibili hanno nome di donna, e qui le donne hanno nome di città. È dunque un gioco letterario, ma d’altra parte nessun personaggio del romanzo ha un nome normale (Gatto, Fedele, Paguro, il dottor Alfa)… Mi piace ammiccare alla cultura visuale e mettere così una pulce nell’orecchio di chi legge, come a ricordargli che ha tra le mani qualcosa di fittizio, un artificio.

Raccontaci qualcosa di te e del tuo rapporto con la pittura.

In realtà sono un appassionato di pittura ma in modo dilettantesco. In triennale diedi un esame di storia dell’arte contemporanea, ero sicuro di aver studiato tutto in maniera perfetta, ma quando poi arrivai all’esame mi resi conto che mi ero fatto delle super idee a livello concettuale e interpretativo su ogni quadro ma la professoressa semplicemente mi chiedeva “Sì, ma questa che tecnica è?”, “Ma questo che materiale è?”. Da lì ho capito che probabilmente non sarò mai un critico d’arte! La mia formazione mi spinge a vedere la pittura più da un punto di vista delle suggestioni che delle questioni tecniche.

Quanto racconti per te stesso e quanto invece scrivi su una spinta diversa?

C’è sicuramente una volontà forte di raccontare qualcosa, questo è il motivo per cui in generale si fa letteratura: si vuole mettere sulla pagina un’esigenza propria che può rispecchiare in qualche modo anche l’esigenza di un altro. Se vuoi scrivere per te stesso e basta allora scrivi un diario, ma se vuoi fare letteratura ti rivolgi anche solo astrattamente ad altre persone. Scrivi per te stesso e per gli altri, analizzi te stesso e al contempo puoi tentare di mettere nero su bianco qualcosa che è importante per qualcun altro. Dopodiché, ho scritto un romanzo e non un saggio: ora noi stiamo indagando il libro e ne esplicitiamo le strutture, ma Il Gatto di Chagall è anche, semplicemente, il frutto di un viaggio mentale, di un’immaginazione che galoppa e che non sai dove andrai a parare. Rileggendo poi ti rendi conto che quell’immaginazione è anche struttura, qualcosa di collettivo che va oltre la tua personale capacità immaginativa, e dunque man mano che il romanzo prende forma si creano tutti i collegamenti, i riferimenti e così via. Volevo dapprima dare in modo anche ingenuo sfogo alla mia facoltà creativa, ma è vero anche che l’arte è sempre originale e al contempo non lo è mai. Cioè: è sempre farina del tuo sacco ma nel tuo sacco c’è farina anche di tante altre persone.

E dal punto di vista del lettore? Che tipo di attenzione ti aspetti da parte tua?

Mi aspetto di stupire il lettore, di farlo meravigliare, di dargli un’esperienza estetica. D’altra parte nel libro è forte l’idea che sia nel rapporto col lettore che il libro stesso si realizza. Ogni lettore ci mette qualcosa. Poi mi piacerebbe sapere che qualcuno ha viaggiato leggendo le mie pagine, riconoscendovi sensazioni che nella quotidianità magari scivolano via, e che la letteratura con i suoi artifici può portarti a identificarle e guardarle in profondità.

In effetti è anche ciò che suggerisce la copertina..!

Il disegno è di Nicolò Canova, e quando ho visto il suo disegno mi sono detto: “io voglio questo!”, perché restituisce quell’atmosfera alla De Chirico che secondo me nel romanzo c’è molto. In più al centro c’è quest’uomo che pensa, e il suo pensiero è un tubetto strizzato da cui fuoriescono diversi colori… è molto complesso ciò che si trova nella mente umana, c’è un vero e proprio mondo – anche quello dell’arte.

C’è nel libro una frase per me molto importante, che racchiude molto di ciò che volevo dire. Ad un certo punto Gatto dice a Dresda che “ognuno è in fieri la propria opera d’arte”. Noi siamo letteratura, noi siamo arte, al di là del libro, al di là di quello che riusciamo a costruire con diversi artifici. Il gatto di Chagall è in un certo modo anche il gatto di Schrödinger, perché fintanto che si trova dentro la scatola – dentro il libro – può essere tutto, sia vivo che morto; ma è là fuori che ci aspetta la risposta.

Progetti futuri?

Non so, i progetti si definiscono man mano che si vive… Sto scrivendo dei racconti, che vorrei poi raccogliere collegandoli l’uno all’altro creando una sorta di universo narrativo. Sto scrivendo anche poesie, magari più avanti potrei concepire una raccolta… Devono ancora rimanere a macerare. La distanza ti fa capire se può funzionare (Il Gatto di Chagall l’ho concepito nel 2011 e l’ho finito nel 2016!).