A spasso per Victory Park con Alesksej Nikitin

Con le presidenziali in Ucraina alle porte, vi raccontiamo una delle ultime uscite di Voland, Victory Park dell’ucraino Aleksej Nikitin.


_ di Silvia Ferrannini

Aleksej Nikitin ama dipingere città. Ne inala l’aria, ne scalcia i ciottoli, ne scruta ogni anfratto. Più che mai il suo sguardo esplora Kiev, la sua città natale e palcoscenico del suo secondo romanzo Victory Park (2014), brillantemente tradotto da Laura Paglieri e pubblicato dalla casa editrice Voland – la quale già aveva scommesso su questo autore offendo i suoi tipi all’esordio letterario dell’autore, Istemi, del 2013, anch’esso ambientato nella capitale ucraina.
Siamo nel 1984. Victory Park è il suolo calpestato da numerosi protagonisti. Sotto il peso di piedi di studenti, venditori in nero, veterani della guerra in Afghanistan, gente affamata o corrotta, il parco o piange o ride, ma sempre accoglie. Un grande Carnevale, spesso caotico e troppo eterogeneo (non è affatto semplice stare dietro a tutte le storie e microstorie che si diramano nel racconto), dove a fare da collante è lo spirito agrodolce che aleggia fra gli uomini e le cose di un’Ucraina alla ricerca della propria identità. Il tutto si svolge nell’autunno del 1984 che, come dice Nikitin,

“È l’ultimo anno sovietico, non toccato dalla perestrojka. È l’Unione Sovietica, apparentemente non ancora sfiorata da alcun cambiamento, ma in realtà già putrescente all’interno: basterà una piccola spinta per farla crollare. Ma esternamente va ancora tutto bene… In realtà tutti sapevano tutto, la situazione era tale che tutti vedevano che il paese non poteva vivere in quel modo, che nessuno sapeva bene come cambiarla… il punto è che cambiare la situazione, in qualunque modo, senza cambiare alcune cose di fondo, non era possibile.” – Aleksej Nikitin.


Questa, senza troppi fronzoli ma con perizia di dettaglio, è l’URSS
. Come efficacemente scrive Marco Puleri nella postfazione al libro, Victory Park «può essere descritto come un vero e proprio bestiario del mondo tardo-sovietico», che prende forma da un’accurata documentazione da parte dell’autore sulla storia e la quotidianità di Kiev.

I personaggi principali sono due, il giovane Pelikan e Ivan Baghila. Il primo nasce in una famiglia di archeologi e s’innamora di Irka, fanciulla dagli istinti ribelli alla quale il ragazzo vuole regalare un paio di Puma nere. Su Ivan pesa il fardello dell’eredità del mitologico nonno Maksim, una sorta di eroe del suo tempo di cui tutti parlano in città. La loro amicizia è il solo nodo narrativo continuativo tra le tre sezioni del romanzo (Il “Pellicano” e Baghila, Breve Corso sull’Arte dei Giardini, Bilancio d’Autunno) che, per il resto, pare una grande (e curiosamente tenera) baldoria. La premurosa affezione ai suoi personaggi (tantissimi, fra secondari e non) e l’intelligente ironia di Nikitin vivifica la scrittura e individua quel grande divario che si apre, prima ancora che tra Occidente e Oriente d’Europa, tra la riva destra e quella sinistra del Dnepr. Nel 2014 Nikitin prese parte agli eventi di Euromaidan e sa perfettamente quale sia la forza smisurata di cui deve dotarsi un popolo per raccogliere i lacerti di un Paese squassato. Fondare una narrazione da una fenomenologia (in senso lato) proteiforme e sovente contraddittoria richiederebbe anni di pazienza e continue correzioni di tiro che Nikitin, nel suo piccolo, già da Istemi sta tentando di imbastire.
Ecco che un disegno esplicativo, una gerarchia di eventi, un’esposizione calcolata in Victory Park non c’è. L’autore racconta tutto, il più possibile, anche a scapito della coerenza narrativa, perché ciò che conta è non perdere un solo dettaglio di una Storia che brucia. Quello di Nikitin è uno slancio etico che assembla un grande magazzino di colori e fotogrammi stanziato tra le barriere occidentali e il mare d’Azov – un Paese fin de siècle che ancora lavora su se stesso sulla scorta della percezione, del riscatto e della memoria. Forse all’autore servono le annotazioni del quotidiano per schiudere uno sguardo d’insieme, l’impasto di occhi e anime (mai indigesto, per quanto complesso) che si raggruma in Victory Park, opera filologica per immagini e sensazioni più che per parole.
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