Nel mese di dicembre, tra le varie segnalazioni letterarie di OUTsiders webzine spiccava anche il libro biografico su Gian Maria Volonté pubblicato da Add Editore. Un testo – verrebbe da dire – “definitivo” sull’argomento, che partendo dai primi anni di vita dell’attore, ricostruiva la nascita e l’ascesa del nostro. Abbiamo discusso del personaggio e delle sue caratteristiche con l’autore Mirko Capozzoli, incontrato a Torino nella sede della casa editrice, cominciando proprio dal capoluogo sabaudo dove la storia oggetto di analisi e discussione ha preso forma. Perchè Volonté era molte cose insieme, tutte egualmente complesse.
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_di Alessio Moitre
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Partiamo dal principio.
Sì, tutto ha avuto inizio dalla tesi. Io, per capirci, mi sono laureato nel 2004, al Dams di Torino. Durante il corso di studi mi ero legato agli attori, a certi attori. Mi ero interessato per esempio a Carmelo Bene, Petrolini, la Duse. Già all’epoca amavo i film di Rosi e di Petri. “L’incontro” con la figura di Volonté è avvenuto, all’inizio per merito delle mie prime ricerche per la tesi e successivamente per il lavoro su un documentario, che poi si chiamerà “Indagine su un cittadino di nome Volonté”, di cui seppi la realizzazione. Era di Alejandro de la Fuente, poi diventato amico e aiuto indispensabile per il libro. Ci ha messo in contatto Giovanna Gravina, la figlia di Gian Maria.
Poi..
Finita la tesi ed il documentario, la vita è proseguita ma senza mai davvero lasciare l’argomento Volonté. Ho continuato a raccogliere materiale e a parlare con Giovanna. Negli ultimi tre anni, grazie ad Add, mi sono tuffato completamente nel progetto. Ho cominciato da zero e da lì sono andato avanti. Volevo rispondere a delle domande che mi ero sempre posto.
E sei partito dalla vita, che mi dicevi, non essere sempre stata trattata nel dettaglio.
Libri su Volonté ne sono usciti molti, alcuni notevoli. Ma certi punti andavano visti o scoperti. Per esempio proprio la sua vita a Torino. La sua famiglia si era trasferita nel capoluogo quando aveva pochi mesi. È stato faticoso a dispetto della grandezza del capitolo. Non è stato facile trovare riferimenti, notizie, dati e ne vado piuttosto orgoglioso delle informazioni ottenute.
L’inizio della carriera è teatrale.
I primi quindici anni sono teatro anche se con l’andare del tempo, l’attore di cinema ha soggiogato quello di teatro. Voleva un certo tipo di messa in scena mai sviluppata del tutto, comunque. Sono partito sentendo i suoi compagni d’Accademia, con varie interviste. Era necessario sentirli secondo me. Mi potevano dare un quadro del giovane Volonté non sempre indagato.

Ho letto con interesse della figura di Volonté soprattutto per quanto concerne i rapporti umani, non sempre facili con un uomo dalla forte personalità.
Non era semplice, no. Richiamava su di sé certe attenzioni. Prendiamo per esempio il caso di Carla Gravina. Quando conobbe l’attore era un personaggio già importante. La relazione fece scandalo ma è anche vero che ha concentrato sulla sua persona tutta la tensione che il suo lavoro richiedeva. Questo andava alle volte a discapito della vita, soprattutto lavorativa, di chi gli stava intorno. Pensiamo ad Angelica Ippolito, a cui chiese di abbandonare la carriera teatrale per seguirlo nelle sue vicende.
Nel libro tu hai tenuto un atteggiamento neutro sulla sua vita.
Non credo di aver fatto un ritratto della persona perfetta. Era un personaggio spigoloso ma ho cercato di renderlo così com’era, in modo distaccato ed obiettivo.
All’inizio del libro c’è un’intervista a Francesca Benedetti, in cui parlando del mondo di Gian Maria, per descriverlo usa quattro termini: “la solitudine, il senso dell’orrore, la fragilità, l’onnipotenza”.
Sì, questo è anche interessante. Da questo punto di vista il Gian Maria Volontè ragazzo corrisponde al Gian Maria Volontè adulto. Anche dopo la malattia, nonostante la fragilità, presente da sempre nel suo carattere. Dalle lettere emerge chiaramente. Umberto Orsini, nell’intervista che mi ha concesso, inquadrò bene la faccenda, parlando della sua esperienza in Accademia e sulle sue qualità, disse: “Sembrava che avesse fatto vent’anni di teatro, in realtà forse aveva fatto vent’anni di vita”. La sua adolescenza non era stata facile infatti. Ma nel complesso non era un personaggio semplice d’afferrare.
Famosa di Volonté è rimasta la sua tecnica recitativa, alle volte anche descritta dai suoi colleghi come inflessibile e dallo studio continuato e senza sosta sui personaggi.
Molti giovani attori guardano ancora a lui. Anche per via della sua esatta corrispondenza fra l’attore e l’uomo, come se non ci fosse uno stacco. Le sue scelte, la coerenza delle idee, le decisioni prese anche rifiutando parti che non sentiva, anche quando non era finanziariamente comodo. E nello stesso tempo assumendo decisioni che lo hanno reso celebre, come il primo western con Sergio Leone e Clint Eastwood, “Per un pugno di dollari”. Un successo clamoroso e inaspettato.
Sul metodo tu hai indagato, anche nel libro.
Era un metodo che gli arrivava prima di tutto dal teatro. Riscriveva tutte le parti, tutto il testo. Imparava a memoria tutto. Ci teneva ad essere inattaccabile. Studiava i testi e leggeva ogni cosa potesse venirgli utile. Una preparazione umana e intellettuale completa. Se poteva sentiva, intervistava le persone perché gli dessero qualche spaccato o contributo per la creazione del suo personaggio. Nel complesso metteva insieme diversi metodi…
Era un processo istintivo.
Sì, esatto. Metteva insieme tutto. Importante fu Orazio Costa, che lui chiamava “maestro”, insegnante di molti grandi attori teatrali in Accademia. Costa non aveva un metodo preciso, ti portava a trovare il tuo metodo.
Sul set aveva la stessa attenzione.
Conosceva ogni dettaglio e condivideva anche il lavoro sulla sceneggiatura. Era sua intenzione arrivare ad un risultato condiviso. Con Rosi andò così, con Petri, per esempio, alle volte, litigò per ragioni politiche.
Ad un certo punto Volonté, soprattutto dopo l’esperienza di Genova (1981), rimane teatralmente indietro, la sua è un’avanguardia datata, se così possiamo dire.
Faccio una premessa, i video dello spettacolo io non li ho visti. Ho letto testi, recensioni ma il video all’Eliseo non l’ho visto. È una situazione che va inquadrata.
È l’unico momento nel libro in cui Volonté pare in difetto…
Come detto, innanzitutto va inquadrato. Lo spettacolo avviene dopo la malattia, la convalescenza, periodo in cui a casa di Carla trova il “Girotondo”. Proprio lei ha sostenuto che il lavoro teatrale fu un modo per autodistruggersi. Volonté aveva anche questo, era un personaggio autodistruttivo e soprattutto dopo la malattia e la morte del fratello, Gian Maria è fragile, come non mai. Si confronta con la morte e la presenza della morte si percepisce. In questo senso il “Girotondo” di Volonté è uno spettacolo mortuario, teoria avvallata davvero da tutti. Dove pare quasi flagellarsi.

Erano lontani i tempi del Vicario insomma.
Nel ’65 fu coraggioso e propose di realizzare spettacoli, opere teatrali mai portate in Italia. Una di queste era proprio “Il Vicario” di Holf Hochhuth. Penso anche che usò lo spettacolo per farsi un nome e accreditarsi. Un operazione a tutto tondo diciamo. Anche se dopo lo spettacolo, la compagnia non riuscì a proseguire, per varie ragioni personali ed economiche.
Questo tuo libro è indubbiamente importante. Potrei addirittura avanzare l’ipotesi della tua “opera definitiva” sulla figura di Volonté?
Io qualcosa l’ho lasciato fuori ma non aggiungerebbe molto. Alcuni aspetti si potrebbero indagare ancora di più ma di documenti è difficile trovarne. Curioso ed utile allo stesso tempo sarebbe indagare sui suoi rifiuti cinematografici, pensiamo solo a “Padre Padrone”. Personalmente il periodo in cui si reca in Francia avrei voluto trattarlo più diffusamente. Li c’era un Volonté coraggioso ed impegnato. Un periodo parigino davvero intenso. In generale comunque Volontè non lo abbandono. Ho aperto anche un blog per proseguire, in fondo, il lavoro.
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Per gli interessati: www.mirkocapozzoli.it