Ripercorriamo la storia di uno dei dischi più estremi e in anticipo sui tempi mai realizzati: I.N.R.I dei Sarcòfago. Come buona parte degli innovatori di un determinato genere, gli autori di questo “monumento brutale e brutalista” non si resero bene conto di cosa esattamente avessero creato…
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_di Ramon Rodriguez
Per chi non ha vissuto la propria adolescenza con magliette nere, capelli lunghi e un forte dolore continuo al collo per lo scapocciare, cosa vorrà dire “metal estremo”? Musicalmente, parliamo di un sottogenere dell’heavy metal; si distingue per l’uso, prevalentemente, di una tempistica molto diversa, un rimo molto più veloce – sebbene spesso molto più lineare e semplice – e una distorsione del suono degli strumenti più marcato. Pare che Dave Mustaine, il chitarrista e fondatore dei Megadeth, si esercitasse suonando i Motorhead, un gruppo più classico, mettendone le cassette a doppia velocità, e provando a star dietro al suono. Mustaine, col suo gruppo, contribuì al “thrash metal” (“thrash” = “percuotere”), uno stile già più “violento” del predecessore, caratterizzato dal tipico tempo di batteria continuo e veloce, rubato dall’hardcore punk.
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Fra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta, gli inglesi Venom proposero una versione contenutisticamente diversa dall’heavy metal tradizionale, pur suonandolo, essenzialmente, uguale; però furono i primi a tirare fuori una serie costante di riferimenti al Diavolo, all’inferno, e a tutto il mondo della “blasfemia” in genere, pur facendone, in realtà, solo un uso da spettacolo: non ci credeva nessuno. Un giorno, qualcuno decise di dare troppo retta ai Venom, e contemporaneamente di suonare come suonavano i gruppi thrash, ma in modo ancora più estremo, perché quando si hanno sedici anni non si è mai abbastanza ribelli: quel qualcuno erano i brasiliani Sarcòfago.
E’ il 1985, e a Belo Horizonte, in Brasile, qualche sedicenne non si sta godendo il clima e il sole; il giovane Wagner Lamounier, detto “Antichrist”, fa parte di una cricca di giovani squattrinati, che decide di farsi prestare gli strumenti da amici e parenti vari, per registrare un album estremo (fatto vero), il micidiale EP “Bestial Devastation”.
Quella cricca era composta da Max ed Igor Cavalera e ora tutti li conoscono come i Sepultura. Wagner si occupò dei testi su un brano, ma – pare, a sentire interviste rilasciate 30 anni dopo – la mamma dei due fratelli Cavalera suggerì caldamente ai figli di non frequentare Wagner, in quanto una “cattiva compagnia”. Cacciato in questo modo dalla promettente band brasiliana (un vero peccato, considerando che l’ep Bestial Devastation permise ai Sepultura di suonare con band di punta dell’epoca, tipo i Whitesnake), Wagner si associò al giovane Geraldo Minelli (vi giuro che i nomi e cognomi sono tutti veri) e decise di fondare la sua band estrema, più estrema di quegli sfigati che lo avevano cacciato.
Comparvero così sulla scena i Sarcòfago, segnati dagli stessi problemi di povertà e scarsa conoscenza dell’inglese dei loro cugini, ma anche da una decisa mancanza di fama; tuttavia, i Sarcòfago registrarono I.N.R.I, che possiamo definire il padre e la madre del black metal, su tutti i piani: musicale e, soprattutto, iconografico.
Nell’estate 1987, i nostri riproposero, sull’etichetta indipendente Cogumelo records (coincidenzialmente, la stessa dei Sepultura, ma coincidenzialmente fino a un certo punto, visto che era anche l’unica) i brani che già avevano registrato un paio di anni prima, e anche avevano diffuso in una tradizionale audiocassetta con copertina ciclostilata; vicini agli stilemi delle band punk finlandesi – i Rattus, ad esempio – e grazie al contributo del batterista Eduardo, detto “DD Crazy”, il loro suono si distingue immediatamente. Abbiamo già detto che nel metal “estremo” un tipo di percussioni continue, veloci e ripetute (il classico tum tum tum tum tum tum tum a nastro che si sente spesso nel metal) è consuetudine; ma è consuetudine anche grazie all’idea di Eduardo di inserire questo beat veloce, il cosiddetto “blast beat”, in tutti i brani.
A questo aggiungiamo le distorsioni esagerate di Minnelli e del chitarrista Zéder, e otterremo un album che… suona veramente male.
L’effetto finale è talmente esagerato ed estremo che non piacque nemmeno a Lamounier; per questo lasciò momentaneamente la band, fino ai primi anni novanta (anche per studiare economia fuori città, fino a diventare professore di economia a Belo Horizonte, ma di questa volata di carriera accademica parleremo in un secondo momento). Quando Wagner ritornò in pista, pochi anni dopo, i Sarcòfago continuarono a produrre album sempre estremi e particolari, ma non riuscendo mai a bissare l’unicità di INRI; entro i primi anni del 2000, il gruppo era ormai sciolto, perlopiù per ragioni personali – ovvero per l’essenziale mancanza di tempo e interesse nella carriera musicale dei membri principali.
Tuttavia, la pietra miliare era già stata lanciata; se dal punto di vista musicale, oggettivamente, dobbiamo aspettarci un album abbastanza terrificante, registrato male, distorto, e cantato in un inglese pessimo, dobbiamo soffermarci su testi e, soprattutto, immagini del disco.
Sulla copertina di INRI, uscito in diverse edizioni ma sempre con la medesima fotografia (pur cambiando il viraggio del colore), troviamo un gruppo di tardo-adolescenti, volto dipinto rozzamente in bianco e nero, jeans e maglietta nero pece, borchie esageratamente lunghe – più simili a chiodi che altro, cartucciere. Il tutto sottolineato da una nota quasi ridicola, che dovrebbe farci pensare: quasi nessuno ha i “capelli lunghi” tipici del metallaro stereotipato, ma hanno perlopiù i capelli di mezza lunghezza, come chi li sta facendo crescere, come dei sedici-diciottenni che “stanno lavorando” sulla loro immagine “estrema”.
Anni prima, anche i Venom avevano tirato fuori un look vagamente simile, pantaloni in pelle, borchie, armi medioevali. Ora, i Venom stavano ai “boia”, ai “cattivi” nell’immaginario “medioevale” spesso caro all’heavy metal, come altri gruppi avevano l’aspetto dei buoni, dei cavalieri; ma nessuno aveva mai pensato ad estremizzare il loro look, e nessuno soprattutto aveva mai realizzato la “corpse paint”, il modo di truccare esageratamente pesante tipico del successivo black metal.
Le origini di questo stavano nel frontman danese King Diamond, leggendaria voce dei Mercyful Fate, e ovviamente nell’immortale Alice Cooper; ambedue i frontman avevano pensato a dipingere il loro volto per dare però un tono “teatrale”, od horror che fosse, alle loro performance; i Sarcòfago scelsero di avere l’aspetto di dei cadaveri, dei demoni, delle creature tornate-dalla-morte, incarnando l’immaginario satanico suggerito dai Venom. Una decina di anni dopo, il volto bianco con orbite scavate di nero, sia nelle versioni più meticolosamente divise e curate, come quelle sfoggiate dagli Immortal, che in quelle più confuse e genericamente zombesche, come i Behemoth, divenne un punto di riferimento.
Il look militaresco, le cartucciere e gli anfibi per intenderci, pure spezzavano con la cultura thrash metal (e metal in generale) dell’epoca, dalla canzone di protesta contro la guerra di vaga ispirazione punk si passava a quel qualcosa che sembrava quasi apprezzarla, dandoci gruppi (più o meno schierati politicamente e più o meno scherzosi) che ne hanno fatto il loro tratto stilistico, citandone due a caso gli svedesi Marduk e i finlandesi Impaled Nazarene.
Questo aspetto è poi calato nei trend black metal, preferendo universalmente un look più genericamente cupo e meno schiettamente militaresco – o meglio preferendo evitare di sembrare dei guerriglieri, fatta salva una vena underground di gruppi esplicitamente guerreschi che, nella seconda metà degli anni 2000, è tornata a riempire le file del black metal.
Dal punto di vista musicale, INRI è, dicevamo, abbastanza… pessimo: le canzoni sono molto brevi (difficilmente superano i tre minuti, con l’eccezione di Nightmare – la quale però vanta un’intro di un paio di minuti, e della conclusiva The Last Slaughter), con testi riduttivi e banali a dir poco, pochi accordi e una variazione stilistica pari pressoché a zero; lo stesso Lamounier lo trovò di scarsa qualità, mentre Minnelli, per anni, rimase convinto fosse un album di un altro genere. Eppure, in larga parte per la loro scelta stilistica, i Sarcòfago vennero presi ad esempio dalle generazioni successive; oggi, quasi 30 anni dopo, INRI viene considerato una pietra miliare del genere black metal, e in senso assoluto di tutto il metal estremo, associandolo ad altre perle (come Reign in Blood degli Slayer, per dirne uno).
Perché consigliarne quindi l’ascolto? Per ascoltare un album acerbo sì, ma – anche – dannatamente in anticipo rispetto ai tempi: è quasi come ascoltare il prototipo di un genere prima che sia uscito e forse addirittura pensato.