[REPORT] Pop con personalità: la prima volta di Laurel in Italia

Siamo andati a sentire il concerto di Laurel in Ohibò e ci siamo innamorati delle sue giacche floreali e della sua voce spezzata, così personale e originale da poter essere riconosciuta in mezzo a mille.

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_di Mattia Nesto

Non si sa quanta consapevolezza serpeggiasse tra gli spettatori che l’altro giorno hanno raggiunto il Circolo Ohibò di Milano per assistere al concerto di Laurel, giovane autrice inglese vera e propria “next big thing” del chamber-pop made in UK. Già perché lo show di Laurel è stato quello che si può definire un concerto perfetto, perfetto per il preciso momento che la carriera della cantante vive. Già perché al netto di un’atmosfera in perfetto stile “club inglese”, con le volte basse dell’Ohibò che rimbalzavano bene le onde soniche della band, Laureal ha dimostrato tutto il suo talento.

Un talento che si esprime innanzi tutto in un rapporto tutto suo col pubblico. A differenza di tante band, specie nord-europee, che salgono sul palco senza degnare di uno sguardo né il pubblico né gli altri compagni, Laureal sorride a tutti, non indugia mai a suonare ma intrattiene, sa come allungare di un pochino i tempi tra una canzone e l’altra di modo, ad esempio, di sostituire una chitarra che fa le bizze. Quindi, data una presenza scenica elegante, dolce ma anche decisa e ben piantata fa da perfetto correlativo oggettivo la musica, un chamber-pop dicevamo venato di accenti ora più rudi ora più sinuosi che si sposa in modo ottimo alla voce della stessa Laureal. Già la voce di Laureal.

Prima ancora che la costruzione dei pezzi (per altro arrangiati davvero bene se si considera che la formazione è composta da due chitarre, basso e batteria, quindi più classica di così si muore) quello per cui ci si innamora di Laurel è la sua voce, che, sempre ad un passo dallo spezzarsi definitivamente, danza, per così dire, ad un passo dall’abisso, regalando un gradiente di interpretazione davvero sconvolgente, specie per il pop contemporanea.

Lungi dal voler essere sperimentale a tutti i costi oppure, specularmente, volere inseguire le mode del momento, Laurel batte la sua personale strada, come una nave della Royal Navy che non sarà la più veloce in mezzo ai flutti ma sa che arriverà, ogni volta, a destinazione. E la sensazione di una crociera in mezzo ai mari del mondo di Laurel è tangibile già da un paio di pezzi. Lei infatti è abile a trascinare dentro al proprio mondo l’ascoltatore che, ben presto, abbandona il telefono, si scorda della birra che tiene in mano (e che per questo diventerà, rapidamente, calda e in pratica imbevibile) fa quello che, forse, si dovrebbe fare in ogni concerto: ascoltare, quasi a bocca aperta (alcuni ce l’avevano spalancata) le canzoni, muovere le anche e il bacino più o meno a tempo e viaggiare, assieme all’artista.  

Laurel ha poi anche la caratteristica di sapere quando “spingere” sia dal punto di vista musicale che proprio vocale, dimostrando buone doti e energia da vendere. Ne vengono così fuori una serie di gioiellini di chaber-pop venati di malinconia che più inglesi di così non si può e che, tutte le volte che prenderemo la metro, questo come il prossimo autunno, ci accompagneranno prima di andare in ufficio. Uno show avvolgente perciò quello di Laureal, scarno fino all’osso, dato che non ci sono visual, trovate sceniche o costumi di scena particolarmente sgargianti (se non un bellissimo completo vintage floreale che dona, dona moltissima alla stessa artista inglese). Il palco è riempito, in toto, dalla musica di Laureal. Già un concerto primordiale eppure non fermo nel tempo ma proiettate verso il personalissimo della nostra. Un futuro che, a giudicare dalla bellezza comunicata dalla sua chitarra e dalla sua voce, è radioso come un mattino di inizio giugno per Laurel.