Autobahn e l’Infinito

Rievochiamo la genesi della pietra miliare dei Kraftwerk, ovvero, le radici di tutta l’elettronica contemporanea. Un disco che, solo come le grandi opere d’arte sanno fare, esplora orizzonti inediti, “altri”: tendendo all’Infinito. 


_di Ramon Rodriguez

Il mai-abbastanza-lodato “Autobahn”, dei Kraftwerk, uscito nell’anno solare 1974. Qualsiasi appassionato di musica elettronica conosce questo disco e la sua importanza, e pressoché qualsiasi appassionato di musica elettronica conosce i Kraftwerk come le proprie tasche, riconoscendone il ruolo di “Beatles dell’elettronica” che da ormai anni la critica mondiale, universalmente, riconosce loro.

Tuttavia, nel 1974 i nostri anziani tedeschi duri e rigorosi, connubio perfetto di uno stile di vita riservato e ben lontano da quello della “rockstar” (o del “produttore di elettronica”) e di una produzione e qualità musicale a dir poco impeccabile – fin quasi alle punte dell’artificiale – erano ben altro: erano essenzialmente poco più di due studenti di musica. Una decina di anni prima, Florian Schneider e Ralf Hutter, studenti al conservatorio di Dusseldorf, si conobbero, iniziando una fertilissima collaborazione artistica (durata fino al 2008), in quel periodo e in quel luogo (la Germania degli anni 70) dove il quale numerosi artisti tedeschi crearono un nuovo suono, il cosiddetto (prima scherzosamente, poi seriamente) krautrock.

 

 

La loro prima prova fu con gli Organisation, quindi, dopo l’acquisto di un sintetizzatore nel 1970, con altri artisti, la maggior parte dei quali confluiti nei Neu!; l’innovazione proposta dal duo era la manipolazione del suono analogico con strumenti elettronici. Che in parole povere significa modificare il suono dei loro strumenti –  ovvero flauto, chitarra, violino, organo e piano – con vari tipi di filtri, una cosa che oggi qualsiasi chitarrista shoegaze fa con una mano dietro la schiena, ma che, nel 1974, quando i sintetizzatori erano roba per pochi, non era così scontata. Le loro prime produzioni furono Kraftwerk (1970) e Kraftwerk 2 (1972), album molto sperimentali, quasi pura improvvisazione e post-produzione. Nel 1973 entra nella squadra Wolfgang Flur, e nello stesso anno esce Ralf und Florian (Wolfgang era ancora poco più di un turnista), album molto più simile a quelli a noi noti, con percussioni elettroniche e, soprattutto, un marcato uso del vocoder – ovvero della voce campionata – un vero caposaldo nel suono dei Kraftwerk.

 

In questi anni, i nostri conobbero un tizio, tale Konrad Plank detto Conny, un ingegnere e produttore che aveva già collaborato, come tecnico del suono, con personaggi divenuti poi essenziali, ad esempio i Can e i Cluster. Con una specie di scambio a doppio filo, Plank propose inconsapevolmente ai ragazzi tedeschi il suo studio di registrazione a Colonia per il loro nuovo imminente esperimento musicale, “Autobahn”, diventando il produttore di uno degli album di maggior successo dell’epoca e di maggior influenza di sempre nel genere, facendo peraltro sì che il suo studio diventasse un vero must per qualsiasi formazione tedesca e non di elettronica.

 

Alcuni musicisti tedeschi, freschi dell’acquisto di dei prodigi della tecnica dell’epoca (i sintetizzatori Minimoog ed AKS), decidono di perfezionare i loro suoni con il contributo di un ingegnere e il loro immaginario visivo con un pittore, Emil Schult; ecco il background di Autobahn.  Non a caso, il suono di Autobahn, realizzato combinando moderni sintetizzatori e tecnica di registrazione, è molto più pulito e solido di quello dei precedenti album, più incanalato, ed in effetti incorniciato dalla precisione di Schult e Plank.

Al primo ascolto, possiamo dividere subito l’album in due parti: la seconda è composta da Kometenmelodie 1 e 2, Mitternacht e Morgenspaziengang, una serie di tracce unite dal vago tema del passaggio sera-notte-alba, con una sfumatura emotiva (emozioni-paure-sollievo), tematiche e stili ancora cari alla sperimentazione tedesca. Ma la prima metà, composta dalla sola Autobahn, una fucilata di 22 minuti, è la vera novità.

I Kraftwerk tirano fuori l’idea di creare una traccia “pensata per l’automobile”, per incarnare lo spirito della città, dell’auto, del viaggiare in autostrada, di quelle componenti proto-industriali, con ottimismo visionario tutto tedesco (ciao Fritz Lang, è bello sapere che sei esistito). L’idea è riportare contemporaneamente la monotonia – e vuoi anche la noia eh – del viaggio di ore in autostrada, e la soddisfazione di farlo, di esplorare, di poter muoversi in libertà.

L’immagine che avevano in testa era la autostrada A555 Bonn-Colonia,  dove, essendo quasi un rettilineo di 18km circa, e perlopiù senza limiti di velocità, le gare di velocità ai 200 all’ora di notte non erano infrequenti. Si guidava e ci si divertiva.

 

E il ritornello – ipnotico al massimo – del brano recita “fahr’n fahr’n fahr’n auf der Autobahn”, ovvero “viaggiare, viaggiare, viaggiare in autostrada”, cosa che qualcuno ha (erroneamente) scambiato per “fun fun fun auf der Autobahn” (“divertirsi, divertirsi, divertirsi in autostrada”). Erroneamente fino a un certo punto, visto che anni dopo fu proprio Hutter a smentire l’errato testo del ritornello, ma appoggiandone il significato complessivo. Il resto del brano segue lo stesso filone: descrizione della monotonia del paesaggio, della monotonia del sole nelle vallate tedesche, immaginari di città tedesche pulite e in ordine che spuntano in mezzo a vallate verdi, e coincidenza cosa mostra la copertina?

 

Colline ed autostrada, vallate e Volkswagen, passato e futuro. Che è poi la chiave di volta dell’intero progetto Kraftwerk, un portarsi avanti nel tempo prima che le cose vadano di moda, ma senza alcuna pretesa di creare “appositamente” un suono volutamente oscuro o un testo nonsense per solleticare orecchie di snob e soloni della musica, quanto piuttosto la ferma volontà di creare qualcosa di realmente nuovo, per poi renderlo un marchio di fabbrica anche dieci, venti, trenta anni dopo. Assistendo oggi ad un live dei Kraftwerk abbiamo la netta impressione di vedere “i vecchi maestri”, che suonano cose  già viste, forse anche già superate, o che qualcuno ha fatto meglio, ma “in versione originale”, come assistere alla prima versione di un film dopo averne visto il remake in HD.

Se vogliamo approfondire la parte tecnica di questo articolo, possiamo iniziare evidenziando oltre alla fantasia visionaria dei Kraftwerk e alla loro competenza musicale, grande peso ebbe il lavoro di Plank, che propose un innovativo uso della “registrazione multitraccia”. Si tratta di una tecnica di registrazione oggi molto diffusa, quasi indispensabile, ma all’epoca ancora pionieristica; per capire bene di cosa stiamo parlando, immaginiamo che ciascuno strumento che compone un brano – voce inclusa – venga registrato autonomamente, e confluisca, attraverso un mixer, nel suono finito.

 

Ogni strumento è registrato con la sua “traccia”, e può essere duplicato, modificato, distorto, integralmente o in parte, e, durante il mix finale, ancora rivisto; quando lavoriamo su numerose tracce contemporaneamente in questo modo, parliamo appunto di “multitraccia”, una tecnica che consente un controllo molto migliore del prodotto finale. La registrazione multitraccia comparve effettivamente negli anni 40, con i primi mixer a 4 piste; nel 1970, i primi prototipi di mixer digitali (e di innovativi mixer a 16 tracce) vedevano la luce. Per darvi un’idea, consideriamo che oggi uno studio di registrazione di secondo piano propone intorno alle 64 piste.

L’altra intuizione di Plank fu l’uso di un suono molto pulito per le parti di batteria, limitando al massimo la distorsione del suono e favorendo la pulizia del prodotto finito; questo contribuì a creare quel tipico suono distaccato e ripetitivo che i Kraftwerk riutilizzarono in più occasioni. Da questo stile rimasero influenzati numerosissimi artisti successivi, come gli Ultravox o i già citati Can – che ne presero il suono – o i Sonic Youth e i Radiohead, che ne presero il ritmo, ribattezzato successivamente “motorik”,  particolare e caratterizzato da un andamento continuo e moderato.

 

Dopo l’avvento di Autobahn, molte cose cambiarono; i Kraftwerk iniziarono la loro reale ascesa, cominciando un successo ancora ininterrotto; Plank, invece, ricevette la visita di personaggi come Brian Eno e David Bowie, ammaliati dalla qualità e dalla pulizia del suono da lui prodotto, richiedendone anch’essi l’intervento – ed è così che è nato Heroes. Il primo mattone della musica elettronica più commerciale, ovverosia un tempo ripetitivo e pulito, era stato posato; oltre vent’anni dopo, la techno prendeva piede, unendo i ritmi funky alle tempistiche ripetute all’ossesso, oltre vent’anni dopo i Chemical Brothers e tutti i pionieri del rave made-in-England rivedevano quel disco come la prima idea alla base della loro musica, ed oltre quarant’anni dopo noi tutti ne riconosciamo il valore, anche se probabilmente era “solo” nato per celebrare quello “spirito tedesco” che aleggiava ai tempi.