Luce, materia, spazio si intrecciano nel lavoro dell’artista brindisino in mostra a Torino fino al 30 giugno.
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_di Alessio Moitre
Il rapporto umano, se così possiamo chiamarlo, con una costruzione architettonica, è una vicinanza che a mio parere è stata fraintesa. Dall’arte è stato addirittura sfruttato innestando sopra un anche promettente impianto critico, concettuale, ideologico, un auspicabile scossone emotivo, veicolato dall’opera, nelle membra del pubblico accorso per l’evento. Quasi sempre il risultato, anche da una parte di addetti ai lavori, è un silenzioso spernacchio interiore o un dardeggio tra due soggetti. Alcuni, debbo dire, se conditi dal dialetto, davvero di fine cabaret.
Il site specific – per dare il nome corretto al caso di cui tratto – ha di recente vilipeso vari luoghi, tutti per mano nota di artisti ormai nel mito. Firenze è stata vittima prescelta per storia e attrattiva. Roma a tratti sbatacchiata, Milano fastidiata da interventi, quasi sempre in piazze e luoghi di forte passaggio, superflui per non dire tracotanti. Questo mio incedere per giungere al punto che non credo negli interventi studiati come sono sempre rimasto scettico nella connessione che si dovrebbe instaurare tra un creativo ed il luogo prescelto per il proprio manufatto.
L’architettura è faccenda diversa, inanimata e dell’uomo ne prende solamente le linee partorite dal proprio genio. Dunque da Quartz Studio, alla mostra personale di Giuseppe Gabellone (Brindisi, 1973) in collaborazione e con il sostegno della Fondazione Sardi per l’Arte, si ripropone la diatriba, questa si interiore, che mi porto dietro ad affrontare interventi studiati per un dato contesto.
In una sala, dal pavimento sempre splendido, si allarga nello spazio una struttura solida, composta da due bracci metallici su un treppiede. Quaranta lampadine emettono una luce forte ma non abbacinante, visibile dal vetro ben oltre i limiti della strada. La visione è gradevole. Mi sono soffermato per curiosità meccanica sulla composizione del lavoro, sulle saldature visibili e che al pari dei cavi di altri lavori in altri contesti veduti, considero parte integrante dell’opera e che sono regolarmente celati agli occhi dell’amatore. Figli meno aggraziati insomma.
L’artista pugliese ha per primo considerato il vuoto della sala come parte da riempire e ne ha sfruttato la materia fisica come l’incorporea presenza della luce.
Cosa ha percepito di quella realtà? Ne ha studiato la storia? La sua composizione è nel solco della sua ricerca attuale? Soprattutto l’ultima domanda m’incuriosisce, sapendo inoltre che l’esposizione era in concomitanza con la personale alla galleria Zero di Milano (periodo 5 aprile – 5 maggio).
Perché non credendo in una fede però ne professo un’altra, che s’immagina un’artista grande menefreghista (in bontà), portare al pubblico una creazione non studiata ma creata. Senza destinazione, come tutte le opere in fondo sono. Un po’ d’egoismo che renderebbe meno contente le gallerie, le fondazioni, i musei ma che, a mio modesto avviso, darebbe respiro e forse logica alla pratica dello site specific, ad oggi un matrimonio complicato tra uomo e architettura.