L’EP omonimo del quintetto statunitense grida a gran voce la sua indignazione nei confronti della confusione politico-sociale americana attraverso il suo “musical journalism”.
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_di Luca Cescon
Morte di una nazione: la neonata era Trump, ma anche i problemi ambientali e sociali, il razzismo della polizia e il divario economico insito negli States. Questi alcuni dei nemici giurati del supergruppo melodic hardcore Death of a Nation, uscito ufficialmente sulla scena underground ad aprile 2018 con il suo EP omonimo, ma già portatore sano di hype dall’estate 2017.
La band comprende ex membri di Verse e Defeater, due pesi massimi della scena musicale hc che non hanno alcun bisogno di presentazioni; ad alzare l’asticella ci pensa l’etichetta di uscita di “Death of a Nation”, la No Sleep Records (Departures, Xerxes, WSTR, Aviator, Pine, solo per citare alcuni dei gruppi prodotti da questa label negli ultimi anni).
Pensare in modo critico, imparare dalla storia vissuta e dagli errori del passato, colmare il vuoto comunicativo tra le persone, aprire una piattaforma di dialogo: la chiamata alle armi dei Death of a Nation passa attraverso questi step, e soprattutto attraverso la musica composta da questo quintetto, denominata da esso stesso “musical journalism”.
Il Tempo bussa con insistenza alle porte dell’Umanità, la Storia avvisa che il momento che si sta vivendo è davvero uno dei più cupi di sempre: questi sentimenti di paura vengono convogliati dai Death of a Nation all’interno di quattro tracce che sono poesia e rabbia al tempo stesso.
Tra spoken word, jazz, rock e melodic hardcore, “Don’t speak for me” esterna fin da subito tutta la disperazione e la volontà di urlare a squarciagola la propria indignazione, con una struttura che è il mix perfetto tra il sound di appartenenza di Defeater e Verse.
Va sottolineato come la sola figura di Jason Mass (ex chitarrista della band di Boston), vero deus ex machina della scena musicale internazionale, sia costantemente capace di tramutare in oro tutto ciò che tocca (o al quale si avvicina, come in questo caso).
“No love from above” suona la carica con un attacco di batteria devastante, proiettando l’ascoltatore dritto contro un muro; le chitarre si incastrano con una semplicità disarmante in tutta la loro armonia e bellezza, sostenute da una concretezza generale davvero fenomenale. Il finale aperto e strappalacrime conduce a un epilogo in pieno stile Verse, con la voce lasciata andare in lontananza.
Il gioco di parole di “The United States of Amnesiacs” concretizza le altissime capacità di scrittura, sia testuale che strumentale, della band, con tutti i componenti sugli scudi per l’intera durata del brano.
A chiudere il cerchio di questa manifestazione di resistenza culturale ci pensa “Methaphors for murderers”, un’altalena emotiva che ricorda gli ultimi lavori dei Defeater. I quasi sei minuti e mezzo di durata non devono ingannare, poiché la traccia si sviluppa sostanzialmente su tre piani: il primo, di stampo melodrammatico e di protesta; il secondo, di calma e pianto soffocato, mentre il terzo di liberatoria rabbia.
Sicuramente si tratta della canzone più rappresentativa, in quanto capace di racchiudere dentro di essa le varie correnti sviluppatesi in questo breve lavoro d’esordio. Solo il tempo dirà se “Death of a Nation” avrà un seguito, magari un full lenght: nel frattempo, un canto di rivolta è stato lanciato alto nel panorama underground, pronto a segnare il cammino da percorrere.