Abbiamo fatto una chiacchierata con l’autrice di “Q502 – 300 anni dopo il grande esodo”, pubblicato da Stampa Alternativa per la collana Eretica. Andiamo alla scoperta della sua poetica in bilico tra le maree della cronaca quotidiana e le sabbie di Marte.
Nel pensare un racconto di fantascienza quanto si lascia ispirare dai fatti di cronaca? E quanto di personale-biografico inserisce nel suo immaginare mondi “altri” e lontani?
La massa di informazione che ci tiene informati in maniera continua su quello che succede nel mondo costituisce sicuramente la base culturale dell’individuo del duemila. Quindi i fatti di cronaca anche lontani geograficamente diventano intime realtà intorno a cui girano i nostri pensieri.
Quando scrivevo Q502 ho sentito, quasi in maniera incosciente, la necessità di lavorare le dinamiche del mondo attuale e trasporle in quel mondo futuro. All’interno di tutte le mie storie c’è molto del mio vissuto, ovviamente traslato e rielaborato sotto nuove vesti. C’è il mio vissuto di bambina: sono cresciuta in campagna in Umbria negli anni settanta, in un mondo dove magia e realtà si mescolavano.
C’è il mio vissuto da adulta: i figli, la famiglia, i viaggi e gli anni vissuti all’estero passati ad osservare l’umanità in culture e paesaggi differenti, foreste, campi e tanto deserto. Il mio soggiorno al Cairo è stato tra i più formativi, non solo per questa incredibile e affascinante megalopoli, ma anche per esservi stata al momento della primavera araba. Quel 25 gennaio una quantità enorme di giovani pieni di speranza si è riversata per le strade, c’era una euforia incredibile. Poi i primi morti, i carri armati, i spari per strada, il coprifuoco, comunicazioni tagliate, non più internet, non più telefono. Dove andare? Intorno al Cairo è solo deserto. La realtà è la mia inesauribile fonte di ispirazione.
Un tema/sotto-testo presente nel romanzo è quello della “convivenza” tra popoli. Sulla Terra come su Marte: consapevole che una domanda di questo genere potrebbe implicare un saggio breve come risposta, le chiedo giusto qualche spunto… l’essere umano riuscirà mai a mettere da parte individualismo ed interessi personali per cooperare davvero in ottica globale/universale?
In tutte le epoche storiche la relazione noi/altri è stata molto complicata e conflittuale, non si è mai riusciti a raggiungere una forma armonica di convivenza.
Bisognerebbe chiedersi cosa spinge l’essere umano a preferire gli interessi personali a quelli di un’ottica globale. Una cultura dell’individualismo errata? Una sfiducia nella gestione dell’organizzazione delle cose umane da parte degli altri umani? La paura della propria morte e quindi un attaccamento alla propria individualità?
Forse gran parte delle nostre decisioni che impediscono l’armonia con il gruppo e con l’ambiente derivano proprio dalla paura esistenziale, viscerale della morte e che spinge ognuno di noi a cercare di dare un significato alla propria vita. Forse se riuscissimo a dare un senso a questa paura, un senso che non porti ad una certezza assoluta, ma piuttosto ad un leggero sentire, potremmo stare in ascolto dell’altro.
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Ogni volta che leggo letteratura simili-distopica mi viene sempre da immaginarla anche al cinema, è una sorta di deformazione. Vedrebbe bene la sua storia sul grande schermo? Quando scrive, ha dei riferimenti “visivi” ben definitivi mutuati da film, fumetti o simili?
Ho moltissimi riferimenti cinematografici tra cui Blade Runner, Gattaca, Brazil, Matrix ma anche quelli più antichi come l’incredibile Metropolis. Dal mondo del cinema ho ricavato la personalità di Dylan: all’inizio del libro l’ho immaginato simile a un Indiana Jones per trasformarsi in Rick di Blade Runner. Il nome Dylan è in omaggio a Dylan Dog, protagonista dell’omonimo fumetto che ho molto amato.
Ma poi c’è la realtà, basta aprire un giornale e l’incredibile è lì sotto i nostri occhi, gli estremisti e l’attentato in Francia del Bataclan, le terribili grandi discariche delle megalopoli, la connivenza di amministrazioni con le mafie. La realtà mi aiuta anche ad immaginare situazioni inventate. Per esempio gli odori e il rimbombo delle voci all’interno di un aeroporto a ferragosto o di un centro commerciale in un fine settimana, mi hanno aiutato a immaginare cosa si possa provare a vivere perennemente sotto una cupola o in un tunnel sovrappopolato.
Nel titolo di questo libro c’è la lettera Q: il pensiero non può che andare a Wu Ming, con il quale (parlo al singolare in relazione al collettivo) lei ha collaborato per la raccolta “Tifiamo Scaramouche“. Che tipo di esperienza è stata? Intendo l’essere inserita in una operazione “a più mani” e nell’orbita di Wu Ming.
Più che una collaborazione è stata una partecipazione ad un progetto sperimentale. Eravamo in tanti e dovevamo creare un racconto seguendo alcuni parametri che avevano come riferimento un periodo storico molto preciso. E’ stata una bellissima esperienza di compartecipazione, ne sono riuscita arricchita, ormai vedo la scrittura come possibile luogo di incontro.
A proposito, in termini operativi, come promuoverà questo romanzo? La troveremo in giro per qualche presentazione?
Per questo romanzo ho scelto la collaborazione con Il Taccuino, un ufficio stampa indipendente con un taglio divulgativo molto attuale. Ho già presentato il libro a Roma e a Torino, sono state presentazioni un poco diverse dalla norma con musica, lettura e scienza. Il mio scopo è stato quello di portare le persone nella dimensione dimensione magica e avventurosa della fantascienza. A Torino le letture di alcuni brani sono state accompagnate da Anna Barbero al piano e da Lorenzo Giorda al Theremin suo mitico strumento. Ho voluto dare risalto anche alla parte scientifica del progetto, a Roma sono stata affiancata da Davide Grassi, un astrofisico esperto nell’analisi dell’atmosfera marziana e a Torino da Sebastiano Ligori dell’Osservatorio Astronomico.
Questo tipo di presentazione è stata accolta con grande entusiasmo, quindi mi sto organizzando per portarla in altre città come Bologna e Milano.
Tra poco pubblicherò su Youtube “Sabbia di Marte”, una bellissima canzone le cui parole sono all’interno del romanzo e accompagnano il protagonista mentre torna a casa per le vie di Agra. La musica l’ho affidata agli Zyp, una giovane e preparata band torinese che per l’occasione prende nome della band marziana, i Flare. Presa dall’entusiasmo per questo progetto musicale, con un altro gruppo di ragazzi sto pensando ad un video per la canzone.
E come sta andando, in generale, il libro, in termini di riposta della critica e del pubblico? Trova ad esempio ci sia stato qualcosa di frainteso? Oppure qualcosa che l’ha colpita in modo particolare in relazione alle reazioni alla sua “creatura”?
Qualcuno avrebbe voluto una maggiore descrizione dei luoghi e dei personaggi ma per lo più la mia scrittura veloce e sintetica è stata accolta favorevolmente. Tanti sono stati i commenti positivi, soprattutto tra i giovani. Il libro è stato letto da persone di ogni età, alcune si sono avvicinate alla fantascienza per la prima volta. Molti mi hanno domandato se ci sarà un seguito, in effetti sto già lavorando al secondo.
Quando scrivo, mi sembra di agire più di istinto che di cervello, metto me stessa, la mia prospettiva, cercando di non avere filtri. Ma una volta pubblicato il libro, ascoltando le domande della gente, mi sono veramente resa conto di quanto la storia sia intrisa di informazioni sulla mia visione del mondo. Non è una visione molto positiva, allora mi è venuta spontanea una domanda: è giusto scrivere un libro su un futuro distopico oppure raccontare realtà terribili come nella precedente raccolta di racconti Caffè Paszkwosky? Ma questo è quello che vedo e che voglio raccontare.
Tre parole per descrivere la sua poetica.
Questa è la domanda più difficile, ma forse una parola potrebbe racchiudere quello che vorrei suscitare: sentire. Sentire il respiro, sentire i rumori, sentire il silenzio, sentire le urla, sentire la musica, sentire le puzze, sentire i profumi.
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Immagine di copertina tratta dall’incontro di presentazione del libro al Circolo dei lettori di Torino