Nella mostra presente a Palazzo Chiablese visibile fino al 20/5/18, una delle più importanti e imponenti della scena artistica istituzionale torinese: una raccolta degli eclettici lavori del fotografo italiano Frank Horvat curata da lui stesso, dalla metà degli anni ’40 ai giorni nostri.
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_di Miriam Corona
Esistono diverse chiavi per entrare nel palazzo mentale di Frank Horvat. Per essere precisi, ce ne sono quindici, trovate dal fotografo stesso come denominatori comuni del suo lavoro, avente l’umanità come l’ipotetico anello che le tiene unite. Quell’umanità che non grida, quella sottintesa che lega un padre di Calcutta e una dama seduta in un caffè parigino; quella che si insinua anche dove non vogliamo, che passa di mano in mano. Horvat è un maestro nella lettura del mondo in tal senso, come si evince dalla mostra attualmente esposta a Palazzo Chiablese, a Torino. È proprio dalla condizione umana che inizia il percorso, la prima delle quindici sezioni in cui si divide la mostra. “Suggerire i problemi, piuttosto che sottolinearli” dichiara Horvat. “Non punterei l’obiettivo su un familiare o su un amico che soffre semplicemente perché non mi piace che la mia arte si nutra del suo dolore”.
Un’idea precisa dunque che tuttavia non permette di conoscere, né al fotografo né allo spettatore, i limiti dell’etica fotografica in questo senso: dove finisce l’eccessivo distacco e dove inizia la morbosa invadenza? Di fatto, nei suoi lavori si legge la sofferenza sottintesa, ove è presente. E’ quasi sempre girata di schiena o intenta a fare il suo lavoro tra le mani, gli occhi e i movimenti, ma non è mai dichiarata apertamente: nelle fotografie di Horvat non vedrete mai un corpo mutilato o un volto piangente. Il dolore, se c’è, scorre silenzioso ma non invisibile.
Così si interroga anche sul voyeurismo, il desiderio di introdursi e possedere con lo sguardo – il fotografo che apre una finestra a senso unico su quello che si trova davanti soddisfa di fatto esclusivamente il suo desiderio, incurante del rifiuto altrui e di come il prossimo può o meno apprezzare il modo in cui viene visto attraverso l’obiettivo. Quel famoso stilista avrebbe apprezzato, si chiede Horvat, si essere ritratto in atteggiamenti così femminili? O la signora sulla Madison Avenue, avrebbe gradito, magari dopo ore di lotta contro i segni del tempo, il modo in cui è stata vista?
Ogni capitolo della mostra è una caccia al tesoro in cui il bottino non è la verità bensì la ricerca stessa. Addentrandoci sempre più profondamente nel fitto lavoro di Horvat, cerchiamo di rispondere ai dubbi e alle perplessità di quello che ci troviamo di fronte ma capiamo anche molti aspetti che si palesano man mano che ci addentriamo.
La donna è un punto focale del lavoro di Horvat. Amante della donna longilinea e avvenente, si avvicina al mondo della moda, che occupa una parte consistente del suo lavoro con servizi realizzati per le maggiori testate mondiali come Vogue e Harper’s Bazaar. Disincantato dalla patina che avvolgeva quelli che non erano niente più che manichini anzichè donne, Horvat osò spogliare le modelle del trucco, delle parrucche e dei fronzoli inutili, in una lotta contro i mulini a vento. “Peggio di tutto erano gli stereotipi: lo sguardo appassionato, il sorriso radioso, l’aria sognante”. Il risultato fu una dimostrazione veritiera della donna secondo un modello pret-a-porter che pretendeva immagini più realistiche.
A “spezzare” il percorso espositivo, una sezione dedicata alla collezione personale di Horvat, all’interno di sale più raccolte e buie, come a sbirciare attraverso una porta segreta. Una raccolta varia che spazia da Bill Brandt a Henri Cartier Bresson, Roger Ballen, Helmut Newton, Sebastião Salgado, Irving Penn, Brassaï, Robert Doisneau, Marc Riboud e molti altri. “Ho collezionato le immagini che mi hanno colpito perché mi hanno insegnato qualcosa che non sapevo e mi hanno fatto sentire meno solo. In altre parole: ognuna di queste fotografie è un miracolo”.
Non manca l’aspetto “giocoso” all’interno della mostra, grazie ai capitoli delle foto fuori luogo (una ragazza in un baule, un dandy circondato da gnomi: abili messe in scena o casualità?) e delle cosiddette “foto fesse”, foto che fanno sorridere, accadute quasi per caso, ad insegnarci della prodigiosa fortuna che spesso governa (o quantomeno accompagna) il fotografo.
La raccolta imponente delle fotografie è abilmente smaltita grazie ai capitoli che si snodano attraverso le sale, conclusi con gli autoritratti di Horvat, dalla giovinezza alla vecchiaia, che non smentiscono lo spirito ironico e sincero che lo ha sempre caratterizzato nella sua carriera. Una voce fuori dal coro che ha preferito rincorrere l’anima dei suoi soggetti, cospargendoli di un effuso magnetismo che permane tuttora.