Carrozzeria Orfeo: usare l’ironia per un’indagine sull’animo umano

Alla scoperta della compagnia teatrale che “smonta” l’uomo contemporaneo come una macchina, alla ricerca de significati più profondi del vivere ma senza rinunciare ad una buona dose di ironia. 


_di Emanuela Gussoni

Passo indietro: marzo 2017. “Animali da Bar” è uno dei primi spettacoli che vedo a Milano, al teatro Elfo Puccini, dopo essermi trasferita in città. Noto subito che nulla, nella scenografia dello spettacolo, è lasciato all’immaginazione: tutto attinge a piene mani dal cinema e la fiction televisiva. Di fronte a noi sul palco c’è un bar in notturna: tavolini vuoti, sedie disordinate, un bancone di legno lucido sopra il quale penzola una lampada vecchia dalla luce calda che si riflette nel vetro dei boccali. È la perfetta rappresentazione di una bettola, l’antro materno di chi, disilluso, sente il bisogno di piangere sui propri fallimenti. Attendiamo; quando il brusio cala con le luci della sala, lo spettacolo si apre in “rewind”: cinque attori in scena si muovono al contrario, riproducendo in sequenza inversa quella che ha tutta l’aria di essere la parte finale della pièce.

Appena riesco a distogliere l’attenzione dai loro movimenti ipnotici riconosco, nell’unica attrice in scena, Beatrice Schiros, parte del cast de “La pazza gioia” (Paolo Virzì, 2015). Gli altri attori (fra cui i fondatori della compagnia) sono Gabriele Di Luca (è sua anche la drammaturgia dell’opera) Massimiliano Setti, Pierluigi Pasino e Paolo Li Volsi. Le prime cose su cui mi informo a sipario chiuso, con ancora fra le costole quel tipo di respiro che viene assistendo alle cose belle, sono: perché si chiamano Carrozzeria Orfeo? Quando sarà il prossimo spettacolo? Trovo in pochi minuti le risposte.

Carrozzeria Orfeo è un nome-binomio dal fascino ossimorico: il teatro di questa compagnia nata da diplomati all’Accademia d’Arte Drammatica di Udine “Nico Pepe” vuole essere solido e concreto come una carrozzeria. Piegare del metallo non costa infatti meno fatica dell’allenamento dell’attore, del “sacrificio del mestiere”, di un costante sforzo fisico per tenere pronti, in scena, muscoli e mente. Orfeo invece, nella mitologia greca, è l’artista per eccellenza, sciamano capace di condurre le anime in mondi onirici. Non per niente figlio di Calliope, musa della poesia epica.

Ecco che Carrozzeria Orfeo è fra le righe una dichiarazione di intenti: il teatro della compagnia parla della fragilità dell’uomo contemporaneo e lo fa in modo tecnico, preciso, allenato. Domanda numero due: il loro prossimo spettacolo si chiama “Cous Cous Klan” ed è in
cartellone all’Elfo dal 12 dicembre 2017.

Ne parlo direttamente con Gabriele Di Luca, drammaturgo dell’opera.

«Dal mio punto di vista, come autore e regista, bisogna assolutamente affrancarsi dall’aspetto più intellettuale e difficile del teatro e riportare il teatro alle persone.»

“Frustrazioni,​ ​retorica,​ ​falsa​ ​morale,​ ​psicofarmaci​ ​e​ ​decadenza”:​ ​la​ ​costante​ ​dei​ ​vostri spettacoli​ ​è​ ​l’inesorabile​ ​fallimento​ ​dell’uomo​ ​contemporaneo. L’unico​ ​modo​ ​efficace​ ​per​ ​parlarne​ ​è​ ​l’ironia?

Senza dubbio. L’ironia apre un canale emotivo istantaneo con il pubblico, che se scherzi si fida ed è disposto ad ascoltare anche le cose più dolorose; è lì che il teatro ha lo spazio per far passare altri concetti, che altrimenti sarebbero rifiutati.
In generale l’ironia ci piace perché non è “presuntuosa”: noi non facciamo mai teatro “didattico”, non vogliamo insegnare niente a nessuno. Semplicemente raccontiamo la realtà con il nostro stile.

E​ ​se​ ​l’ironia​ ​non​ ​funziona?​ ​Mi​ ​riferisco​ ​nella​ ​fattispecie​ ​al​ ​fenomeno dell’analfabetismo​ ​funzionale​ ​in​ ​Italia.​ ​Cosa​ ​deve​ ​fare​ ​il​ ​teatro?​ ​Modificarsi​ ​o​ ​restare accessibile​ ​solo​ ​a​ ​un’élite?

Il personaggio di un mio testo ti risponderebbe “Per essere ironici bisogna essere intelligenti!”. A parte gli scherzi: l’analfabetismo funzionale, o in questo caso più “emotivo” non ha a che fare solo con l’intelligenza, è piuttosto una questione di educazione e abitudine all’accettazione dei propri limiti. Credo sia questa la prima difficoltà.
Alcuni pensano che il nostro teatro sia volgare o di basso livello e non importa, bisogna anche avere dei detrattori. Quello che è certo è che andare a teatro è un ottimo allenamento per combattere l’analfabetismo emotivo; per questo noi tentiamo sempre di parlare a tutti e di non metterci al di sopra del pubblico.
A volte succede che l’artista dica “bene: questa è l’opera d’arte, venite a prendere i miei concetti”; Carrozzeria Orfeo fa il contrario: ci piace parlare dei sentimenti più bassi dell’uomo, i più atavici, forse per certi versi stereotipati. Così prendiamo per mano il pubblico e lo guidiamo attraverso un terreno dove lui si trova già a suo agio (anche se spesso non vuole ammetterlo!).
Ti faccio un esempio pratico su Animali da Bar: il fatto che Mirka sia una “scorreggiona” o che ascolti di nascosto le canzoni dei cartoni animati non sono dettagli casuali. Si tratta di pulsioni o repressioni infantili o frivolezze che anche tutti noi abbiamo e che teniamo nascosti perché “socialmente inaccettabili”. Ora, lo spettatore può reagire con ironia o sentirsi offeso. Sta a lui.

“Animali”​ ​è​ ​uno​ ​spettacolo​ ​contaminato​ ​da​ ​citazioni​ ​extra-teatrali​ ​(cinema, televisione,​ ​fumetti…​ ​cartoni​ ​Disney!).​ ​Lo​ ​sarà​ ​anche​ ​Cous​ ​Cous​ ​Klan?​ ​Perché​ ​tutte queste​ ​allusioni​ ​“pop”​ ​nei​ ​vostri​ ​spettacoli?

Ti faccio una contro-domanda: tu dici “extra-teatrale”, ma cosa è teatrale e cosa non lo è?  Il teatro è il racconto della vita e quindi, nella nostra contemporaneità, noi parliamo così, come Shakespeare raccontava dei cavalli e delle carrozze. Ogni grande drammaturgo ha sempre scritto per il proprio presente, il nostro è Disney, è America, è marijuana, è gente in un bar… Per me sono tutte cose teatralissime. Le nostre sono allusioni “pop” nel senso alto del termine, nel senso che sono “per tutti” e “ di tutti”. Il problema è che il teatro è percepito oggi come qualcosa di radical chic, che capisci solo se sei intelligente. Quando chiedo a qualcuno “Tu vai a teatro?” capita di sentirmi rispondere “No, è una roba troppo difficile per me”. Dal mio punto di vista, come autore e regista, bisogna assolutamente affrancarsi dall’aspetto più intellettuale e difficile del teatro e riportare il teatro alle persone.


Il​ ​manager,​ ​il​ ​prete​ ​e​ ​il​ ​musulmano:​ ​in​ ​Cous​ ​Cous​ ​Klan​ ​ci​ ​sono​ ​tutti​ ​gli​ ​elementi​ ​per una​ ​perfetta​ ​descrizione​ ​dell’attualità.​ ​Quanto​ ​è​ ​stato​ ​difficile​ ​scrivere​ ​questa drammaturgia,​ ​senza​ ​cadere​ ​nel​ ​banale?​ ​Che​ ​effetto​ ​vi​ ​aspettate​ ​(o​ ​sperate!)​ ​che abbia​ ​sul​ ​pubblico?

Ho cercato di fare un passo avanti rispetto ad Animali da Bar; ci sono tutti gli elementi per uno spettacolo che parli dell’attualità in maniera molto comica e molto drammatica (come nel nostro stile), come al solito ci sono anche luoghi comuni (come puoi non fare una battuta sul paradiso e le 72 vergini?!) ma anche aspetti molto più profondi.
Poi è sempre il pubblico che decide fin dove vuole arrivare a capire. Credo che sarà un buon lavoro, noi siamo molto fiduciosi.

Quanto​ ​conta​ ​la​ ​scenografia​ ​negli​ ​spettacoli​ ​di​ ​Carrozzeria​ ​Orfeo?

Per noi la scenografia è diventata sempre più fondamentale. Dopo l’Accademia abbiamo fatto qualche spettacolo di “teatro nudo”, con il palco vuoto. Da “Thanks for Vaselina” in poi la scenografia è diventato uno dei pilastri della drammaturgia. Tratteggia non solo il luogo ma soprattutto “l’habitat” dei personaggi, quell’insieme di elementi, odori e spazi che definiscono l’ambiente naturale di un animale. Il pubblico percepisce sempre a livello inconscio gli elementi simbolici: in Animali da Bar il bancone, così inclinato e così spaccato, voleva essere una nave incagliata, la condizione esistenziale dei personaggi in scena.

Con​ ​“Cous​ ​Cous​ ​Klan”​ ​siete​ ​cresciuti​ ​rispetto​ ​ad​ ​“Animali​ ​da​ ​Bar”​ ​e​ ​“Thanks​ ​forVaselina”?​ ​In​ ​cosa?

Difficile dirlo! Rispetto a Thanks for Vaselina, Animali da Bar è più cupo ed esistenziale, ci sono forse dieci risate in meno. Ora con Cous Cous Klan abbiamo raggiunto un altro livello; innanzitutto ho aggiunto un personaggio e ce ne sono sei in scena, e per me è stato un passaggio fondamentale perché amo molto le cose corali. Credo poi di essere riuscito a raccontare il mondo che volevo e dal punto di vista della scrittura mi sento di dire che è un testo più raffinato rispetto ai precedenti.

Dove​ ​troviamo​ ​i​ ​vostri​ ​riferimenti​ ​drammaturgici?

Certamente negli autori drammatici e post-drammatici del teatro Nord Europeo ma soprattutto dalla serialità americana. Il mio immaginario è molto più cinematografico che teatrale nel senso canonico del termine; ragiono per immagini: penso ai personaggi in diversi luoghi, poi il teatro mi costringe a riassumere e a portare tutto in un “campo medio”. Se però avessi la possibilità di avere cinque palchi, parlerei in un modo ancora diverso.

All pics by Laila Pozzo