Un film “psichedelico” dal retrogusto vintage: Pattinson convince nella sua parte più estrema, nell’opera cinematografica forse più interessante alla quale abbia lavorato dopo il film di Cronenberg.
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_di Matteo Billia
Era già chiaro che la sua capacità attoriale fosse destinata a parti psicologicamente più intense di quella del rubacuori per teens, e in Good Time, l’opera più riuscita dei Safdie brothers, Robert Pattinson ce lo dimostra pienamente. I registi in questione mettono in moto un’opera psichedelica al neon degli anni ’90, in cui a volte ci si chiede se il suo fine ultimo non sia solo quello di stupire lo spettatore scena dopo scena.
Ma c’è in gioco un altro movimento, più sottile e profondo, che spinge i personaggi di questo film ai limiti della loro posizione già parassitaria, nella zona d’ombra in cui tutto è concesso.
Nick e Connie rapinano una banca, ma la polizia riesce a catturare Nick, affetto da un ritardo mentale. Connie farà di tutto per liberare il fratello, ma si invischierà nelle maglie di una situazione inaspettata, che porterà la sua vita alle più estreme conseguenze. Le traiettorie di tutte le esistenze che incontrano quella di Connie precipitano inesorabilmente, prima fra tutte quella del fratello Nick. Ma Connie non può fare diversamente che seguire una parabola destinata alla capitolazione. Ed è forse questo presentimento della fine ad attrarci così morbosamente: il senso di un degrado senza redenzione, di una vita che affoga nei suoi principi corrotti.
E così il film sembra dirci fin da subito che l’unico destino possibile per i due fratelli sia la correzione da parte dello Stato. Le riprese di Good Time sono psichedeliche, sature, illuminate dai televisori accesi e dalle insegne pubblicitarie nelle notti americane. A volte, la colonna sonora ci trasporta indietro negli anni (si sente sempre questo retrogusto anni ’90) e si capisce che in qualunque epoca avremmo ritrovato un Connie e un Nick.
Accade così che quel luna park nel quale Connie e il suo nuovo compagno di merende vanno a cercare il bottino nascosto (una bottiglia di acido costosissima), diventa la metafora della fine della loro gioventù, o forse solo più un ricordo della stessa, dove gli automi di una galleria degli orrori fanno da sfondo all’orrore reale: la violenza e l’inganno che gli permettono ancora una volta di farla franca.