Spingendosi fuori dalla propria zona di confort fatta di chitarre e successi noti, pj Harvey delizia il pubblico di Barcellona con 80 minuti di folk oscuro, tra fiati, percussioni e versioni alternative dei suoi brani più famosi. Vi raccontiamo il concerto al Poble espanyol, ricostruzione di in villaggio spagnolo.
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_di Roberta D’Orazio
Non ho mai amato quella dicitura stantia e polverosa per cui ciò che resiste ai dettami del tempo viene definito un grande classico. Ho sempre trovato barocca la combinazione di parole, coperto di una coltre di immobilismo il senso. Eppure nella tradizione greca, persino le statue trasmettono all’osservatore di ogni epoca l’idea del movimento dell’atleta sul punto di lanciare il suo giavellotto, o del guerriero pronto a combattere per difendere il proprio onore, fotografia plastica di un evento in perpetuo svolgimento che, in maniera del tutto paradossale, ferma la propria mutazione solo per consegnarla all’eterno. È per questo che ogni classico che si rispetti si distingue innanzi tutto per la propria capacità di adattamento, per la possibilità che fornisce all’utente di applicare chiavi di lettura differenti che ben si addicono alle varie epoche che l’opera attraversa, restando per tanto sempre straordinariamente contemporanea.
Ed è per questo oggi non posso fare a meno, a poche ore dalla fine del suo concerto a Barcellona, di domandarmi se Polly Jean Harvey possa essere considerata ragionevolmente parte della categoria sopra citata, se rientri cioè nell’olimpiche sfere della classicità. Bisogna aggiungere, per completezza, che soprattutto in ambito rock tale terminologia va utilizzata con prudenza, facendo riferimento a uno sclerotizzato sistema di band un tempo innovatrici, ma spesso incapaci di rinnovare se stesse, complice il sostegno di un manipolo di fans che hanno serrato gli intenti iniziali dei loro beniamini tra le pareti di un museo dei fossili.
Non so se i miei pensieri raggiungano una tale compiutezza formale mentre, ancorata sulle sue gambe ferme, PJ Harvey e i suoi nove musicisti avviano il percorso sonoro che terrà incollati i 3000 spettatori accorsi al Poble Espanyol stasera, o se la coscienza venga dopo. Di certo l’intuizione è già presente mentre guardo quella che fu la regina dell’alt rock imbracciare un sassofono. Dov’è la sua chitarra, inconfondibile, quasi un prolungamento del suo corpo esile e poderoso al contempo?
Il primo atto sovversivo è questo. Non è la prima volta che l’artista in questione mi costringe a domandarmi cosa la spinga al di fuori della sua zona di comfort, e negli ultimi mesi mi è già successo un paio di volte: prima di stasera, durante il reading di The Hollow in the Hand, reportage poetico del suo viaggio in Kosovo, Afghanistan e Washington DC. Se una musicista del suo calibro non ha problema alcuno nell’emozionare il proprio pubblico con il supporto degli arrangiamenti, si potrà dire lo stesso della sua recitazione, della sua voce nuda? Ciò che maggiormente apprezzo: la capacità di PJ Harvey di gettarsi nell’oceano dell’ignoto per mettere costantemente alla prova la propria capacità di nuotare in acque ricche di misteri da sondare.
Quando il concerto inizia, c’è ancora la luce del sole. Il Poble Espanyol, dettagliata ricostruzione di un villaggio in cui i vari stili architettonici spagnoli si incontrano, rappresenta lo scenario ideale: deliziosa contraddizione in termini di un monumento alla diversità. Sin dal principio, i gesti di Pj sono misurati, quasi ieratici, non si scuote eppure vibra di un’energia che si alimenta della sua postura ferma. Una statua coperta di piume nere che scarnifica gli eccessi. La accompagnano fiati, grancasse, una chitarra e un basso – questi ultimi due in inferiorità numerica rispetto al resto –, dietro ai quali riconosciamo nomi importanti come quello di Mick Harvey (ex Bad Seed), John Parish, ma anche due personaggi noti nella mia madrepatria, quali Enrico Gabrielli e Alessandro “Asso” Stefana – mi sia concesso quel fremito di nazionalismo che non ho mai avuto.
Negli 80 minuti che seguono – ritenuti pochi, a ragione, dal pubblico pagante, e da chi come me avrebbe voluto ascoltare di più – PJ Harvey declina una scaletta che attinge prevalentemente dagli ultimi due album, “Let England Shake” e “The Hope Six Demolition Project” esacerbando le tinte scure di un folk accompagnato da voci corali e percussioni solenni. Gli arrangiamenti valorizzano la potenza dell’ensable, e la stessa Polly, la cui presenza scenica è matura e notevole, in una sorta di atto di umiltà spesso indietreggia, quasi nascondendo tra i musicisti a cui lascia spazio e visibilità sul palco. La luce bianca che le bagna il volto rende invisibili sulla pelle catarifrangente quei segni dell’età che pure ho amato durante il recital di marzo, rendendola simile a una divinità aliena allo scorrere del tempo.
La mia comprensione degli ultimi dischi non può dirsi del tutto piena. Almeno non fino a stasera. Ciò che la performance di Pj Harvey eredita da un certo filone di musica sperimentale è la capacità di mostrare visualmente di cosa si compongono le varie stratificazioni di ogni composizione, quali gli elementi che formano l’insieme. Il pubblico risponde con un atteggiamento contemplativo. Quando The Wheel esplode ci costringe comunque a scrollare via l’inerzia dalle gambe e balliamo.
Sarebbe facile, a questo punto, eseguire “Down by the water” e “To bring you my love” nelle versioni che tutti conosciamo. Ma a Pj non sono mai piaciute le vittorie facili. Sinuosa, mai didascalica, ci guida alla scoperta dell’estrema complessità di quel “Less is more” che sembra essere il motto della sua recente produzione. Se da una parte cioè smussati sembrano gli eccessi, il live della musicista è l’esatta rappresentazione del segreto di ogni artista: la difficoltà nella creazione di qualcosa che risulti nel complesso assolutamente immediato, ai confini con la semplicità. E questa forma comunicativa così diretta tradisce e rispetta al tempo stesso quell’attitudine ai confini del punk che Pj ci ha mostrato in passato.
Dopo due false uscite e altrettanti rientri, Pj e la sua band avanzano, disponendosi in una schiera ordinata. Si inchinano insieme, come alla fine di uno spettacolo teatrale, e vanno via.
Le luci si accendono sul Poble Espanyol e pur non avendo ancora formulato la domanda nella sua compiutezza mi rispondo che sì, Polly merita senza ombra di dubbio il suo posto tra i grandi classici. Offrendole questa definizione, abbiamo tuttavia il compito perentorio di privarla di quell’accezione morbosa legata alla stasi. Perché Pj Harvey è viva, artisticamente coraggiosa, e in costante divenire.