Il duo palermitano presenta al pubblico Supereroi, a distanza di tre anni dal riuscito FolkRockaBoom che ci aveva consegnato una band in splendida forma. Nei crediti dell’album troviamo Piero Pelù in veste di produttore e la sua influenza – assieme ad altre collaborazioni notevoli come quelle di Davide Toffolo e Umberto Maria Giardini – ha lasciato i suoi frutti in un lavoro di rottura con il passato, sempre all’insegna della sperimentazione.
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_di Simone Picchi
Il “Supereroi tour” conclude la prima parte della sua corsa lungo le rive dello Stretto nella cornice del Retronouveau, realtà ormai affermata nel mondo dei club italiani. Abbiamo prelevato Pietro Alessandro Alosi (voce principale e autore dei testi del Pan del Diavolo), prima di una meritata cena per parlare del nuovo disco, della carriera del duo e dei loro progetti futuri.
Supereroi per scelte di scrittura e stilistiche mi è sembrato un voltare pagina rispetto alla vostra storia. Si può parlare di una nuova fase della vostra carriera?
“Già con FolkRockaBoom ci eravamo spostati verso un suono più italiano ma con una particolare attenzione al concetto di ‘frontiera’. In questo ci ha aiutato il viaggio a Tucson, estrema frontiera americana immersa nel deserto dove il rock e un certo tipo di folk si incrociano perfettamente. Qui il processo produttivo è stato completamente diverso. Il disco è stato pensato e registrato fra Bologna e la Toscana, guarda altrove e rimette in gioco le nostre caratteristiche, con un nuovo compagno di avventure nella produzione. Questa nuova pagina del nostro libro racconta un viaggio diverso, una fase di cambiamento ma che è scritta sempre da noi.”
Rimanendo su quest’idea di confine inteso non solo nell’accezione territoriale, come si concilia con la scelta di concentrarsi specificatamente sulla riscoperta della nostra cultura musicale?
“Non è più un’idea di fuga. Guardare l’Italia non significa avere una visione più ristretta ma semplicemente più attenta ai dettagli della nostra cultura musicale. Credo che servano degli sperimentatori tra le nuove personalità all’interno della scena e tra chi, come Piero (Pelù, ndr) rappresenta la storia, per cercare un confronto che fa bene ad entrambi. Quest’esperienza ci ha fatto conoscere un Pelù ‘nascosto’, al di fuori dell’aura da rockstar popolare: un artista attento alle nuove realtà e che vuole ancora mettersi in gioco. La sua esperienza ci ha aiutato a cercare una via diversa alla scrittura e all’uso dello strumento, che nel nostro caso sono legati ad un folk sdoganato all’estero ma che da noi ancora fatica a farsi strada. Ed è un paradosso perché è una musica alla portata di tutti ma che, nei fatti, non è portata a tutti.”
Siete partiti con la rabbia e la ribellione di Coltiverò l’ortica e – sullo stesso tema della solitudine – siete giunti ad Aquila solitaria. Come si è arrivati a questo nuovo approccio in fase di scrittura?
“Siamo partiti da Coltiverò l’ortica e da questa base abbiamo costruito un mondo; andando avanti ne abbiamo costruito un altro e un altro ancora. In questi anni è successo di tutto e siamo cambiati tanto ma la passione per il rock rimane.”
Il vostro è sempre stato un progetto legato all’idea di “terra” come fonte di vita ed ispirazione. La stessa scelta di creare un prodotto legato alla Sicilia più ermetica e vera che la lega al deserto, altro tema a voi caro, è un ulteriore indizio. Qual è il vostro rapporto con il territorio? Considerata soprattutto la vostra evoluzione stilistica che vi ha portati ad incidere un pezzo come Gravità zero che si riferisce ad un’idea extra-territoriale di confine.
“Posso dirti che questo legame è più facile da trovare in sede live. Innanzitutto il folk è comune a tutte le culture, con la chitarra acustica come strumento universale per veicolare un messaggio ad ogni latitudine. Ma il folk è solamente una delle tre basi culturali su cui ci muoviamo, assieme al rock e alla musica italiana. Dal mix di queste abbiamo creato il nostro mondo musicale, a mio avviso riconoscibile e originale, se qualcuno non si ritrova in questa mia descrizione magari può perdersi in un labirinto di citazioni e rimandi che non sembrano conciliabili. Ma questo non è un problema, quando la musica ti lascia un senso di disorientamento sta comunque lasciando un messaggio, quindi è un bene.”
Passando alle collaborazioni presenti in Supereroi, che influenza hanno avuto i vari Pelù, Toffolo, Vasi e Giardini nella costruzione del disco?
“Supereroi è un album basato sulle persone e sulla loro energia. Inserire semplicemente i loro nomi fra le note del disco non era quello che ci interessava. Piuttosto eravamo curiosi di capire come il loro patrimonio musicale, ma soprattutto umano, potesse venir fuori a contatto con il nostro mondo.”
Stiamo vivendo un periodo storico in cui la scena indie italiana sembra essersi sdoganata in ambito mainstream, attraverso una sempre più crescente partecipazione degli artisti in televisione. Qual è la tua opinione a riguardo?
“L’indie come sperimentazione e ricerca musicale diverso dal mainstream è una cosa, quello sdoganato fa i conti a posteriori con un certo gusto musicale comune agli artisti e al pubblico. La mia domanda è: vale la pena puntare in alto a discapito della sperimentazione e la qualità? Sicuramente dal punto di vista economico si tratta di un fattore positivo, ma finisce tutto lì. Se un act sperimentatore, non adatto alla vendita dei dischi e alle grandi platee riesce a ritagliarsi uno spazio televisivo è comunque un fattore positivo per la scena tutta. Lo scopo di un artista è raggiungere più gente possibile. Certo, magari quello che dici potrebbe sembrare vero riguardo a Piero Pelù, ma io ti dico che non è così. D’altronde non mi pare che da quando ci siamo affidati alle sue cure è aumentata la nostra visibilità televisiva (ride, ndr). Anzi.”
A questo punto una riflessione sorge spontanea: si potrebbe pensare che la scelta di Piero Pelù in veste di produttore sia stata fatta per raggiungere quei palchi e quelle arene tanto bistrattate…
“Assolutamente no. Noi cerchiamo di spingere per arrivare a più gente possibile. Fabri Fibra dice: ‘l’artista che vende la canzone non esiste, la canzone che vende l’artista è sempre più triste’. Dobbiamo stare attenti a non cadere in questa trappola.”
Quindi questa collaborazione apre anche ad un discorso legato ad maggiore visibilità. In tal senso come vedete Sanremo?
“Ripeto, principalmente nasce solo in funzione artistica. È un tentativo di farsi conoscere ad una grande platea, non è un tentativo di entrare a corte e sedersi sulle poltrone dorate. Io ci starei volentieri. La presenza sotto i riflettori della televisione non è uno shock. Le porte rimangono chiuse solamente alle feste private dei criminali dove, a prescindere da una questione di morale, rischiamo di sfociare nel penale (ride, ndr). Per molte realtà è comunque difficile accettare un meccanismo schiacciante come quello mainstream. Penso ai talent dove hai due minuti per una cover. Le band che interesse possono avere a parteciparvi? Parlando di Sanremo, invece, abbiamo dei numeri che sono minuscoli considerati i venti partecipanti fra cosiddetti “big” e “giovani” e le ore ed ore di programmazione in cui trovi di tutto tranne che una reale attenzione per la musica.”
Concluderei questa nostra chiacchierata con una domanda banale ma animata da sincera curiosità: quali sono i progetti futuri del Pan del Diavolo?
“Ci avviciniamo al decennale del Pan del Diavolo, suonare e pensare solo ai dischi non basta più. Stiamo dando spazio a nuovi progetti: Gianluca ad esempio suona per Umberto Maria Giardini ed io faccio altrettanto con Cappadonia. È una fase ricca di energia in cui non ci basta concentrarci e riversarla solo nel nostro progetto, ma ci piace collaborare con altri artisti.”