Lo scorso novembre è stato pubblicato per Canicola Edizioni il suo primo albo intitolato “L’ultimo paese”. Rielaborando in chiave moderna un passato tuttora presente, nel suo lavoro Federico Manzone ha presentato le tradizioni dal sapore quasi mistico e le credenze di un paesino del Sud Italia.
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_di Lorenza Carannante
Lo abbiamo intervistato poco prima dell’inizio del Napoli COMICON, fiera internazionale del fumetto alla quale ha preso parte anche Canicola, associazione e casa editrice di Bologna.
Siamo freschi di reportage dell’edizione del Napoli COMICON alla quale ha preso parte anche Canicola, la casa editrice indipendente che ha pubblicato L’ultimo paese, il tuo ultimo lavoro a fumetti. Il tema della fiera quest’anno era incentrato sul rapporto tra il fumetto e il web. Dal tuo punto di vista, credi che il web sia importante e sia diventato, col passare del tempo, imprescindibile per la diffusione del fumetto?
Il web è sicuramente uno strumento importante, ed è ormai inevitabile per chiunque voglia divulgare o promuovere qualcosa averci a che fare in un modo o nell’altro. Ci sono realtà che hanno visto in questo strumento nuove possibilità di fruizione e non solo. Alcuni progetti di fumetto online, da quelli seriali a quelli di giornalismo a fumetti, hanno trovato nel web nuove possibilità anche formali, che si allontanano sempre di più dalle imposizioni e le regole “classiche” della carta stampata. Questo dimostra che un certo fumetto riesce ad approcciarsi ai nuovi mezzi di comunicazione guardandoli come sfide espressive e non solo come strumenti pubblicitari. Questo fa onore al fumetto.
Il lato oscuro del web probabilmente è la sua estrema mancanza di filtri. Può facilmente trasformarsi in una vetrina sovraffollata, dove chi si occupa di linguaggi artistici si galvanizza per i “mi piace” i “followers” perdendo contatto con la realtà, la sana e vecchia realtà dove persone esperte, mature e sagge ti bacchettano se fai schifezze e ti stimolano ad una ricerca artistica più personale e meno omologata, dove per realizzare un lavoro artistico hai bisogno di un po’ di silenzio e di solitudine, senza pacche sulle spalle. E poi ci sono le connessioni. Penso che per una persona continuino ad essere più costruttive due connessioni reali, nate con una birretta la sera ad un festival come il Comicon, piuttosto delle centinaia di connessioni virtuali che uno può raggiungere sul web.
«Quando ho visto “I dimenticati” di De Seta mi sono innamorato delle atmosfere dell’Italia rurale del secondo dopo guerra»
Parliamo adesso del tuo albo. L’ultimo paese è ambientato e narra delle tradizioni di un paesino del Sud Italia ispirato ad Alessandria del Carretto, in Calabria. Ci parli delle ricerche fatte per la realizzazione dello storyboard dell’intero fumetto?
Qualche anno fa mi stavo interessando ai riti, alle feste popolari, all’idea di sacro slegato dalle religioni ma che ha a che fare con qualcosa di misterioso ed ancestrale. Quando ci si mette a disposizione della propria curiosità poi le cose arrivano da sé. Non ho dovuto fare una vera ricerca perché una cosa tirava l’altra, inevitabilmente. Ho iniziato a leggere qualche libro, ho chiacchierato con gli amici, poi una mia amica mi ha suggerito di guardare i documentari di Vittorio De Seta.
Quando ho visto “I dimenticati” di De Seta mi sono innamorato della festa della pita, dei costumi tipici di quel paese, delle atmosfere dell’Italia rurale del secondo dopo guerra. Trovai l’ambientazione perfetta per quello che volevo raccontare, il luogo adatto in cui far incontrare la realtà con la magia, l’illusione, l’irrazionalità. Quindi su quella superficie realistica ho costruito tutto l’impianto della storia che poi durante la realizzazione si è sempre trasformata un po’, allontanandosi dallo storyboard. Dopo due anni di lavorazione mi sono deciso a raggiungere Alessandria del Carretto durante i giorni della festa della pita. Avevo paura di trovare qualcosa di completamente diverso da quello che stavo immaginando. E invece è ancora tutto lì. Le urla, i botti, la comunità che spinge l’abete, la musica, l’accoglienza, la comunità. È tutto lì. Dicono che finché ci sarà la festa, ci sarà il paese.
Il tuo progetto è ricco di dettagli sia da un punto di vista fisionomico che della descrizione delle atmosfere quasi mistiche in cui i personaggi sono immersi. Ci parli della nascita dei due protagonisti, Vittorio e Mimino?
I miei personaggi non sono altro che maschere. Sono delle allegorie, o almeno sono nati così. Il ragazzo che ha perso un braccio e che in un mondo di braccianti non può che occuparsi di qualcosa di inutile come l’arte, dipingendo tutto ciò in cui non crede più e da cui vorrebbe scappare. Poi Mimino, il bambino miracolato, che non ha ancora raggiunto la disillusione del pittore, è nel mondo della credulità, della fantasia, dei bambini. Ma è curioso, affascinato dalla figura del pittore monco. Poi c’è il nonno, il mio personaggio preferito. Il nonno è colui che ha realizzato qual è l’unico salario di chi si affanna sotto il sole.
È una specie di incarnazione inconsapevole delle parole del Kohèlet, il libro sacro da cui ho tratto alcuni pensieri della voce narrante del libro. Questi personaggi sono nati così, ma durante la realizzazione del libro hanno preso dei loro caratteri ben precisi e hanno iniziato ad influenzare la trama, portandomi in una direzione diversa da quella che mi ero immaginato. Le atmosfere del libro sono quelle di un mondo immaginario, di un passato mitologico, in cui il tempo dell’utile viene interrotto dal sacro e dove la dura realtà si mescola con la magia, con i racconti orali e le ritualità collettive.
Facciamo un piccolo passo indietro. Dove si è formato Federico Manzone e come nasce la sua passione per il fumetto?
Io sono di Cuneo, una cittadina piemontese a un’oretta da Torino, un’oretta dal mare, un’oretta dalle montagne. Una città bella ma in cui è molto difficile realizzare qualcosa di “nuovo”. Ha resistito a più di 7 assedi nella sua storia, ed è medaglia d’oro alla Resistenza.
È chiaro che non è una città facile da convincere ad accettare le novità. Quindi insomma, ho fatto il percorso più lineare: Liceo artistico a Cuneo, Accademia di Belle Arti a Torino indirizzo Pittura e poi la specializzazione in fumetto a Bologna. Il fumetto è sempre stato parte della mia vita, fin da bambino. Ognuno trova il proprio linguaggio di evasione. Per alcuni è la musica, per altri la pittura, la poesia, lo sport! Alcuni se lo portano dietro per tutta la vita, altri lo abbandonano lasciandosi acchiappare dalla disillusione e l’incredulità dell’età adulta. Per me è sempre stato il fumetto il mio linguaggio d’evasione. Anche quando non ci pensavo minimamente all’idea di percorrere questa strada, mi ritrovavo a farlo. Da bambino i miei genitori, per non farmi correre in chiesa, mi mettevano a disegnare sulla panca. Davo la schiena all’altare, mi chinavo sui fogli e con i pennarelli volavo via, fuori dalla chiesa, fuori dal mio quartiere, da tutto. E così è rimasto, penso.
Il tuo tratto è molto personale, particolarissimo per il suo lato “fumoso” e sempre in movimento. Qual è la tecnica pittorica che preferisci e che utilizzi per le tue tavole?
Non ho una tecnica preferita, anzi. Vorrei essere molto meno pigro per cimentarmi con tutte le tecniche possibili! Diciamo che la matita rimane lo strumento con cui mi sento più a mio agio, anche solo per abitudine. Ed è lo strumento che ho utilizzato per disegnare “L’ultimo paese”. Questo libro aveva bisogno di un’atmosfera fatta di fumo, polvere, vento, sole cocente, vestiti consumati. La grafite era lo strumento perfetto per rendere questa atmosfera. La polvere di grafite sfumata con le dita. Ora sto provando la china nera con pennelli e pennini. Ma vorrei anche fare qualcosa di colorato. Vedremo.
Per concludere, negli ultimi anni il fumetto italiano ha avuto un enorme successo anche a livello internazionale. Basti pensare, ad esempio, a Manuele Fior. Ad un ragazzo che si sta avvicinando per la prima volta al fumetto italiano, chi consiglieresti della scena contemporanea?
Nonostante il fumetto mi accompagni da sempre, non sono mai stato un vero esperto. Non leggo tanti fumetti, ma quelli che mi sono deciso a comprare penso siano piuttosto belli. Mi faccio consigliare da chi ne sa molto più di me! Ad una persona che si approccia per la prima volta al fumetto italiano consiglierei di leggere un po’ di tutto: Gipi, Tota, Mattotti, Igort, Bruno, Fior, Bacilieri ma anche i miei colleghi più giovani… Silvia Rocchi, Bianca Bagnarelli, Andrea Settimo, Paolo Cattaneo, Martoz… Non so consigliare con precisione, penso che con tutta la produzione che c’è in circolazione ognuno possa saltare da un autore all’altro in base all’umore, al proprio percorso, se ti interessa indagare la sceneggiatura o il disegno. L’importante è non darsi paletti e leggere cose anche molto diverse tra loro. Il fumetto, come tutti i linguaggi espressivi, non ha limiti. Ognuno si crea il proprio percorso e se lo gode.