La ballata del carcere di Reading: la coppia Orsini-Marini al Teatro Gobetti

Fango, colpe, morte: l’Inferno abita sulla Terra in un posto chiamato carcere. Orsini legge Wilde, tra note d’Irlanda e respiri spezzati. Abbiamo assistito alla data torinese dello spettacolo.

_di Valentina De Carlo

«Aveva ucciso la cosa che amava quindi doveva morire» – Oscar Wilde, La ballata del carcere di Reading

Catene che sferragliano, rimbombo di passi trascinati. E cala il buio e il respiro si ferma. Un brivido nel silenzio, un attimo sospeso. Poi il tempo riprende a scorrere e le note delicate di una chitarra aleggiano nell’aria, cadenzate da ritmi lontani, quelli che recano il profumo di terre straniere, di brulli paesaggi e di vecchie storie, ingiallite dagli anni trascorsi, ma che sono ancora capaci di rapire il cuore. Che la ballata abbia inizio!

Non c’è sipario che s’alza, non c’è distanza davvero voluta, se non quella che ci separa dal palco, ma potremmo essere seduti in un elegante teatro di Torino, come in un fatiscente pub d’Irlanda, magari in cerchio, con una bevanda calda tra le mani, semplicemente ad ascoltare. I bardi stavolta sono bardi d’eccezione, perché questa ballata non è come le tante che potreste udire in paesi sperduti delle terre irlandesi, no.

Questa é la ballata di Oscar Wilde, é il suo urlo di dolore, la voce della sua agonia, il suo rantolo.

Pubblicata nel 1898, due anni prima della morte, La ballata del carcere di Reading é uno dei suoi ultimi lavori, il suo testamento spirituale, la sua drammatica esperienza carceraria tramutata in una sequenza di violacee, dure, taglienti, istantanee di versi. L’inevitabile potenza di questo testo rende superflua qualsiasi scenografia e sul palco resta solo ciò che serve ai veri cantastorie: un tavolo, qualche sedia, una panca. Le voci fanno il resto.. e che voci!
Non appena Umberto Orsini fa prendere vita al primo verso, la sua voce, calda, profonda, suadente, ti incatena alla poltrona e tu inizi a sprofondare, giù, sempre più giù, in quell’inferno terrestre chiamato prigione. Compaiono muri altissimi, più alti del cielo, sbarre di ferro che oscurano ogni sole, celle fredde, vuote. Vuote perché abitate da esseri umani svuotati di anima, di sentimenti, di aria e di acqua. Di vita. E Wilde era uno di quegli esseri, di quelle ombre che vagavano senza meta per quei corridoi popolati dalle forme della paura. Condannato a due anni di carcere e ai lavori forzati per comportamento contrario alla morale vittoriana, il poeta d’Irlanda percorre i sotterranei del mondo, dove vengono relegati – i relitti, i disonesti, gli impostori – e dove tutti sono uguali, accomunati dalla gola riarsa di sete, dallo stesso desiderio di vedere il cielo, dagli stessi cerchi che disegnano camminando nel cortile, dalla stessa mente avviluppata tra mille dubbi e mille perché.

Così stretta nella morsa di questi pensieri, potrebbe anche perdersi la mente, smarrirsi nei meandri di chissà quale pazzia, preda di demoni sconosciuti. Pagina dopo pagina, Orsini ci accompagna in questo labirinto di pietre, divise e colpe, crea davanti ai nostri occhi quel mondo sommerso e dimenticato che Wilde ha voluto fermare per sempre nella sua ballata, cullando l’indicibile in versi che racchiudono musica, perfetti per essere cantati. A omaggiare la verde terra natìa del poeta ci pensano la chitarra e la voce di Giovanna Marini, che in una continua alternanza con la voce maschile di Orsini, che legge la traduzione italiana, risponde ripetendo i versi in musica e nella lingua originale, regalandoci così una doppia dimensione del testo, alternando le crude, ciniche espressioni inglesi, That fellow’s got to swing, alle meno visive rese italiane, finirà sulla forca. Le voci si intrecciano, le lingue si mescolano, le note si incupiscono mentre arriviamo dove Wilde ci voleva portare: alla fossa.

La gialla tana con fauci spalancate / desiderava una cosa viva: / il fango sangue domandava urlando. É questa l’orrida visione che ci vuole raccontare: la pena di morte. L’autore eclissa sé stesso e dedica la ballata a colui che è condannato a dissetare il fango, colui che ha ucciso la moglie e che quindi deve morire. Nel suo incontro con questa ombra come lui, Wilde scopre l’affanno di chi prega senza mai aver pregato prima, di chi attende con premura la mano del boia come liberazione, di chi si affanna a cercare spiegazioni che non esistono, di chi si tormenta nel rimorso. I rintocchi scandiscono le ore che mancano all’alba che cancellerà una vita, lento scorre il tempo nel teatro, lenta l’agonia di chi aspetta invano. Odore d’incenso si espande sulla platea, deboli fiammelle ondeggiano nel buio, le voci degli attori si sovrappongono, si rincorrono, si alzano fino a raggiungere la vetta, il punto di non ritorno, da cui non resta che cadere. E cade Wilde nell’assistere alla vergogna dell’inutilità di punire morte con morte, cade davanti al sorgere del sole che porta notizie funeree, cade nel pianto dei compagni senza nome, cade nel dubbio verso la giustizia, davanti alla coscienza dello Stato macchiata del sangue altrui.

Come i suoi contemporanei, Dostoevskij che aveva vissuto un’esperienza simile in Siberia e a cui dedicò Memorie di una casa di morti e come Hugo ne, L’ultimo giorno di un condannato a morte, anche Wilde crea un romanzo che diventa un monumento lapidario contro la pena capitale e in cui sviscera e analizza le agonie dell’uomo carcerato, senza inventare nulla, ma attingendo ai brucianti ricordi della sua terribile esperienza.

Il progetto della Compagnia Umberto Orsini, messo in scena per la regia di Elio De Capitani, inserito come perla preziosa sul finire della stagione dal Teatro Stabile di Torino, porta con La ballata del carcere di Reading un tema sempre scottante, sempre attuale, sempre vivo, che Oscar Wilde racchiude con il suo genio in un capolavoro senza tempo, che fa ancora rabbrividire, che fa ancora pensare. The man had killed the thing he loved / and so he had to die. Quando la maestria di due attori veterani del nostro tempo, che non badano alla carta d’identità, ma sfoderano una passione, una vitalità che sa ancora trafiggerti ed emozionarti, incontra la potenza delle parole, allora avviene quella magia chiamata teatro.

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