C’è tempo ancora fino al 21 maggio per visitare la mostra sulla più celebre agenzia fotografica del mondo organizzata a Torino da CAMERA. Oltre duecento scatti che mettono piccoli e grandi eventi della storia italiana sotto l’obiettivo di vecchi e nuovi maestri, da Henri Cartier-Bresson a Paolo Pellegrin.
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_di Iacopo Bertolini
Sei sale per cinque colori diversi, rigidamente divise per decenni. Se l’anima di Magnum Photos è sempre stata in bilico tra reportage e ambizione artistica, la mostra organizzata da CAMERA – Centro Italiano Per La Fotografia all’apparenza sembra restituire più la prima tendenza, distribuendo le oltre duecento foto dell’esposizione con un notevole rigore archivistico che ha come regola principe quella dell’ordine cronologico. Una scelta forse canonica, ma quanto mai rivelatrice. Di fronte a quasi ottant’anni di storia italiana messi a disposizione del nostro occhio, il pretesto della celebrazione del 70° anniversario della fondazione dell’agenzia salta irrimediabilmente.
«Un tentativo di fare ordine, seppur parziale, nella nostra memoria» – Walter Guadagnini
All’appello non manca nessuna delle tappe dell’evoluzione sociale, culturale, economica e politica del nostro paese a cui cronaca e libri di storia ci hanno abituato: il dopoguerra di macerie di Robert Capa, le distorsioni del boom sottolineate dall’occhio ironico di Elliott Erwit, il tentennamento della borghesia di fronte al referendum sul divorzio inquadrato da Leonard Freed. La specificità di ogni reportage contribuisce a creare un senso di didascalismo diffuso, che ad uno sguardo immediato fa emergere decisamente il senso documentario della retrospettiva, la quale, non per nulla, viene definita dal nuovo direttore di CAMERA Walter Guadagnini come “un tentativo di fare ordine, seppur parziale, nella nostra memoria”.
Una precisazione lecita, ma di cui qualsiasi visitatore non dovrebbe accontentarsi, considerata l’eccezionalità del materiale presente. L’Italia di Magnum non è infatti, nonostante le apparenze, una visita guidata per turisti della storia. Basta trattenersi qualche secondo in più di quello che l’istinto suggerisce di fronte al feretro di Togliatti inclinato come in un quadro futurista nelle foto di Bruno Barbey, o ai pazienti di un ospedale psichiatrico di Venezia colti in pose da statue greche da Raymond Depardon. Solo a quel punto sarà possibile, finalmente, lasciarsi ferire e guardare con occhio nuovo non tanto gli eventi che hanno segnato una nazione o l’abilità di fotografi che hanno scritto la storia del medium, quanto piuttosto il colossale peso dell’evento e della sua unicità.
Per recuperare le celebri definizioni di Barthes, in mezzo a tanto studium, fatto di particolari culturalmente interessanti, bisogna andare in cerca del punctum, quella scheggia impazzita di realtà che colpisce lo spectator a sua insaputa in una cornice apparentemente innocua come quella della fotografia.
La mostra diventa così un’occasione per ravvivare il rapporto con un passato che, recente o meno che sia, a nostra insaputa ci definisce.
Un’operazione quanto mai preziosa, in un tempo in cui la sovrabbondanza dell’immagine ha viziato le potenzialità della stessa e fiaccato la memoria collettiva. L’alternanza di eventi di portata storica (l’inquietante fotogenia delle manifestazioni per il G8 di Genova negli scatti di Thomas Dworzack) a semplici tranches de vie non meno coinvolgenti (l’arcaismo delle feste siciliane negli sbalorditivi ritratti di Ferdinando Scianna) è una precisa indicazione sull’atteggiamento non solo critico, ma anche emotivo da mantenere. Col passare degli anni i membri di Magnum hanno mutato il loro sguardo, lasciandosi influenzare da linguaggi nuovi come quelli della televisione e del digitale, andando così oltre la semplice documentazione fotografica e portando ad un’autonomia nuova i prodotti del loro lavoro. Perché allora non rileggere gli assolati scorci cittadini di Henri Cartier-Bresson, risalenti agli anni ’30, alla luce degli scatti iperestetizzati di Alex Majoli nelle discoteche di Rimini degli anni ’90? Dal bianco e nero al colore, dall’analogico al digitale, il piccolo-grande mistero della fotografia è sempre lì, pronto a stupire, nascosto anche dietro un episodio di cui potremmo aver sentito parlare fino alla nausea. L’invito è quindi quello di scovarlo, per non ridurre a meri documenti delle opere straordinarie e per prendere atto della concretezza di un passato mai così vicino.