[REPORT] Lo sguardo trasversale di Close-Knit

Il primo degli eventi anticipatori del 32° Lovers Film Fest – Torino LGBTQI Visions porta in anteprima regionale l’ultimo lavoro di Naoko Ogigami, vincitrice del Teddy Award alla Berlinale 2017.


_di Iacopo Bertolini

A stimolare il dibattito alla fine della proiezione Irende Dionisio, Christian Ballarin, Chiara Bertone e Porpora Marcasciano. Close-Knit è un termine che declina il concetto di coesione in due accezioni differenti: quella emotiva, spirituale di un gruppo familiare e quella fisica, materica, delle trame del lavoro a maglia. Il primo evento anticipatorio della nuova edizione del Lovers Film Fest (che avrà luogo a Torino dal 15 al 20 giugno) si è mosso esattamente in questa direzione, al fine di creare un senso di comunità attraverso la collaborazione di realtà differenti. Oltre al festival infatti, rappresentato in questa occasione dalla nuova direttrice Irene Dionisio, sono stati coinvolti Christian Ballarin (coordinatore del Torino Pride – Maurice LGBTQ), Chiara Bertone (Presidente del corso di Laurea in Servizio Sociale presso l’Università del Piemonte Orientale) e Porpora Marcasciano (Presidente onoraria del Movimento Identità Transessuale), presenti in sala al fine di commentare le tematiche toccate dalla pellicola. Va ricordata inoltre la collaborazione del Far East Film Festival di Udine e lo spazio lasciato all’associazione teatrale Nessun Vizio Minore, che con un monologo dell’attrice Mara Scagni ha aperto la serata presentando il nuovo spettacolo Un Passato Infinito.

Il primo merito da riconoscere al film di Naoko Ogigami è quindi sicuramente quello di saper tenere le fila di un dibattito esteso, che riesce a chiamare in causa non soltanto la comunità LGBTQI, ma anche un pubblico ben più ampio, in virtù di uno sguardo trasversale e mai categorico. Close-Knit è infatti un film che prima di tutto parla di famiglia e amore, concetti universali al di là di qualsiasi definizione di genere. Il rapporto tra la piccola Tomo e la transessuale Rinko, fidanzata dello zio da cui la bambina si è trasferita in seguito all’ennesima fuga dell’irresponsabile madre, viene sondato con un’ottica aperta, volta a coinvolgere, come sottolineerà Chiara Bertone, il tema della femminilità in ogni sua sfaccettatura.

«Il film di Naoko Ogigami vuole abbattere barriere, piuttosto che rivendicare con rigore: simboli materiali come il cibo e gli attributi sessuali diventano il tramite fisico attraverso cui connettere identità personali, ancor prima che di genere, sotto il segno del candore dei sentimenti»

Figure di madri – quattro effettive e una in potenza – e di figlie si alternano in un gioco di ruoli tenuto insieme soprattutto grazie a meriti filmici innegabili: gesto, parola e silenzio sono inquadrati da una macchina per lo più statica, sottolineati all’occorrenza da panoramiche e carrelli appena accennati, sostituti meno intrusivi della dialettica campo-controcampo.
I dettagli e i primi piani vengono utilizzati con parsimonia, in linea con una regola generale di discrezione, che tratta con deferenza i corpi (elementi quanto mai fondamentali in una vicenda di questo tipo) e che esce decisamente dai canoni rappresentativi occidentali dell’immaginario transgender. L’encomiabile prova attoriale di Ikuta Toma, qui nei panni di Rinko, viene infatti trattata senza inutili enfasi, rispettando prima di tutto il dramma di una donna non riconosciuta come tale dalla società in cui vive, messa a confronto con un’istinto che completerà definitivamente il suo processo di identificazione con il genere femminile: quello di essere madre.

“Un clash tra natura umana ed aspirazione ad un ruolo”, come lo definisce Irene Dionisio, che Naoko Ogigami sceglie di narrare attraverso il filtro del pensiero buddhista, al quale la pellicola fa costantemente riferimento. Questa scelta contribuisce a trasmettere un’atmosfera quieta, in cui i conflitti sembrano risolversi in un fluire armonioso e naturale, mitigati all’occorrenza da una delicata vena comica. Una mitezza per certi versi incompatibile con un’ottica giustamente militante come quella del movimento LGBTQI. Christian Ballarin lamenta un’approccio certamente originale ma poco realistico alla rappresentazione dell’immaginario trans, viziato da un’eccessiva aderenza al modello femminile: “Se Sylvia Rivera nel ’69 si fosse messa a lavorare a maglia invece che tirare il famoso tacco a spillo, probabilmente ora non saremo qui”. Porpora Marcasciano ci tiene a ricordare infatti la condizione di “Eschimesi in Amazzonia” che vivono i transessuali in Italia, costretti a combattere ogni giorno con una società che di fatto è loro stile. Per la Presidente onoraria del MIT Close-Knit mette in gioco forse troppe “pillole” sulla questione trans, ma riesce ad emozionare restituendo quella “dimensione gioiosa che va assunta a prassi di vita” contro le ingiustizie.

Più ampia è invece l’analisi di Chiara Bertone, che ritiene la famiglia il vero nucleo tematico del film. Da questo luogo fisico e simbolico dipende tanto la felicità quanto il dolore dei figli, un peso che grava sostanzialmente sulle spalle delle madri “in quanto la società è sparita”. Viene messo così in risalto il contrasto tra una dimensione transgenerazionale e i bisogni di una femminilità individuale non sempre conciliabili. Tuttavia è proprio questo sguardo complesso a fare di Close-Knit il film perfetto per introdurre il 32° Lovers Film Fest – Torino LGBTQI Visions. Il desiderio della direttrice Irene Dionisio è infatti quello di raggiungere il più ampio pubblico possibile, al fine di perseguire il vero obiettivo pratico del festival: quello di tradursi in dibattito e confronto. Il film di Naoko Ogigami vuole infatti abbattere barriere, piuttosto che rivendicare con rigore. Simboli materiali come il cibo, la lana e gli attributi sessuali diventano il tramite fisico attraverso cui connettere identità personali, ancor prima che di genere, sotto il segno del candore dei sentimenti: la vera chiave universale per tornare ad essere vicini e coesi.