“Under the gun” e l’infinito dibattito sulle armi in America

Un documento collettivo di testimonianza sul rapporto che gli americani hanno con le armi da fuoco, tra luoghi comuni e potenti lobby, opinioni inconciliabili e statistiche preoccupanti. Un’indagine condotta con intelligenza dalla regista Stephanie Soechtig, presentata nel quinto appuntamento con Mondovisioni a Bologna. 

_di Erica Di Cillo

Che cosa sanno realmente i cittadini americani sul dibattito che riguarda le armi? Difficile dare una risposta soddisfacente. Difficile trovare un punto di vista oggettivo sulla questione, perché se ci si schiera lo si fa in maniera netta: contrari o a favore, niente vie di mezzo. Ma le sfumature sono quanto mai fondamentali per non rischiare di perdersi dei pezzi per strada.
Perché se è vero che il diritto alla difesa personale sembra una conquista positiva e auspicabile, appena si guarda l’altra faccia della medaglia il dubbio è pronto a comparire sui volti di quanti hanno la lungimiranza – e non ne serve molta, in realtà – per chiedersi quale sia il prezzo da pagare.

La risposta la forniscono le madri, i padri, gli amici di tutte le innocenti vittime dei numerosi massacri avvenuti negli Stati Uniti nel corso degli anni, ogni volta che la facilità di reperire armi da fuoco si è trovata a braccetto con la frustrazione, la rabbia, la follia, di qualcuno che non aveva, o pensava di non avere, niente da perdere. Qualcuno che ha sparato soltanto perché si è trovato nella possibilità materiale di poterlo fare, di poter premere un grilletto qualche minuto dopo essere uscito da un negozio in cui non gli hanno chiesto nemmeno se fosse capace di utilizzare l’arma che stava acquistando.

Partiamo dai numeri, quelli che dicono che negli Stati Uniti ci sono più negozi di armi che McDonald’s e Starbucks.

Stephanie Soechtig dà molta voce a entrambi gli schieramenti. Parlano quelli che dormono col fucile accanto al cuscino, parlano le donne che si sentono tranquille solo con una pistola nella borsa, parlano quelli che trascorrono il weekend a sparare, per allenare la mira. Parlano quelli che hanno visto il male che un’arma da fuoco può fare, i genitori di figli ammazzati nei luoghi di educazione e formazione o nei luoghi ricreativi che in una frazione di secondi si sono trasformati in macelli, parlano quelli che hanno sentito il sibilo dei proiettili a qualche centimetro da loro.

Il tema di Under the gun tocca la pancia della gente, e in questi casi la decisione più saggia è sempre una sola: razionalizzare, riportare la questione su un terreno più stabile, meno scivoloso. Partendo dai numeri, quelli che dicono che negli Stati Uniti ci sono più negozi di armi che McDonald’s e Starbucks.

Il diritto a possedere un’arma è sancito dal secondo emendamento della costituzione statunitense: ma come si coniuga tale diritto, unito al bisogno di sentirsi “al sicuro”, con la pericolosità derivante dalla diffusione delle armi da fuoco? Come ci si può aspettare che i familiari delle vittime siano favorevoli a una legislazione che permette a chiunque di comprare una pistola come fosse un cartone del latte? Per possedere un’arma non è necessario dimostrare di saperla usare: un gesto semplice come premere il grilletto – se ne parlava prima – che però ha delle implicazioni pesantissime, che forse meritano maggiore attenzione.

Perché l’equazione “possesso di un’arma=libertà e protezione” non è affatto corretta: se io possiedo una pistola, o un fucile, e il mio vicino di casa ne possiede una, e quello che abita alla fine della strada ne possiede una, e così via, la sola certezza è che si vive immersi in un clima di paura. Che è quanto di più lontano ci sia dalla libertà.

«Se si possiede un’arma, ci sono maggiori possibilità di usarla contro se stessi che per difesa personale»

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È un gioco perverso, che genera un circolo vizioso dal quale uscire è complicato, dal momento che richiede un grande atto di coraggio e una forte presa di posizione: bisogna che qualcuno punti i piedi, che ammetta con lucidità come stanno le cose. Bisogna confrontarsi con la realtà, col dato scritto nero su bianco: se si possiede un’arma, ci sono maggiori possibilità di usarla contro se stessi che per difesa personale. Ma la National Rifle Association, che si batte per il diritto al possesso delle armi da fuoco negli Stati Uniti, risponde con la frase ormai diventata famosa:

“The only way to stop a bad guy with a gun is a good guy with a gun

La Soechtig prova a fornire un quadro completo, senza porsi come obiettivo il raggiungimento di una verità assoluta e immutabile sull’argomento: armi no, armi sì. Tante riflessioni socio-culturali da un lato, tanti interessi economici dall’altro, in mezzo uno stuolo di corpi massacrati da una violenza alla quale siamo assuefatti al punto di considerarla normale.

Mondovisioni#5 – Under the gun di Stephanie Soechtig, è stato proiettato martedì 11 aprile al Cinema Europa, una serata realizzata in collaborazione con Human Rights Nights.