La metafora “satanista” può far sorridere eppure non si tratta di un’iperbole, bensì della posizione ufficiale delle alte sfere governative nonché di una immagine ormai fortemente radicata nell’immaginario collettivo della nazione.
A tal proposito, recuperate le immagini del murales conosciuto come “Il Grande Satana”. Si tratta di un graffito che raffigura la Statua della Libertà con le sembianze della morte, sullo sfondo di una bandiera americana orfana delle sue stelle. La macabra effige sortisce un effetto ancora più significativo se si pensa che è posta proprio a ridosso dell’area dove un tempo sorgeva l’ambasciata statunitense a Teheran. Parliamo al passato perché – come è noto – l’avamposto a stelle e strisce è stato destituito in seguito alla rivoluzione islamica guidata dall’ayatollah Khomeini e alla cosiddetta “crisi degli ostaggi” (vicenda recentemente ricostruita, almeno in parte, dal film candidato agli Oscar Argo di e con Ben Affleck). Ecco, il Grande Satana è l’Occidente tutto, visto come sibillino diavolo tentatore.
“Tra pochi settimane in Iran ci saranno delle nuove elezioni. La situazione è quanto mai delicata e complessa. In Iran ogni candidatura deve essere filtrata da un consiglio speciale”. Il nome dell’organo in questione evoca scenari fantasy: “I guardiani della Rivoluzione”. Emerge sin dall’inizio l’immagine di una nazione difficile da inquadrare, in equilibrio precario fra tensioni opposte.
«One passion against the nation»
Chiariamo in primis che il film della regista tedesca Susanne Regina Meures non è un documentario sulla scena elettronica iraniana o araba, sebbene parta dalla suggestione di un ipotetico “Burning Man Festival nel deserto persiano“. Torna alla mente quel vistoso equivoco avvenuto qualche mese fa in relazione ad un altro film a sfondo musicale, quando il magnifico Eden di Mia Hansen-Løve veniva spacciato come un specie di documentario sui Daft Punk, mentre tratteggiava fondamentalmente una dolorosa parabola esistenziale nella quale i due robot d’Oltralpe avevano più che altro un ruolo “simbolico”.
Ecco, già il nome d’arte del duo rischia di creare scompiglio, irridendo in qualche modo il simbolo tipicamente mediorientale della barba. Ma è solo l’inizio di una trafila che vedrà la coppia di giovani dj elaborare rocambolesche (quanto rischiose) azioni di spionaggio per organizzare “rave” del deserto (leggasi semplici concerti di musica elettronica e non chissà quali maratone di cassa dritta), per registrare la propria demo e stampare la scabrosa copertina del disco (pressoché proibiti i caratteri/font occidentali, tranne che per la dicitura “Made in Iran”).
–
Va detto che si tratta dell’esordio – per la precisione addirittura del progetto di Diploma – della giovane Meures, da premiare in ogni caso per intraprendenza e determinazione: girato con una Canon5D e in parte con un semplice iPhone (per evitare domande in contesti problematici), “Raving Iran” è stato finanziato in larga misura dal ministero Svizzero, in particolare dalla città di Zurigo, meta del viaggio di lavoro che cambierà di fatto la vita dei protagonisti di questa storia.
Sono in molti a riconoscere anacronismi e costrizioni, solo che hanno imparato a dissimulare, celando una consapevolezza cinica e concreta. Per usare le parole di una donna intervistata: “Sembra che questo governo voglia che gli si menta”. E così molti attuano escamotage quasi carbonari pur di non premere i nervi scoperti del potere, pur di mantenere lo status quo.
Persino il confronto genitoriale-generazionale (ostacolo d’obbligo in molte situazioni di questo genere) non ha particolare rilevanza nella parabola di Anoosh e Arash, spinti dalle rispettive famiglie a “vivere le proprie vite lontano dall’Iran”.
Il governo non deve averli perdonato nemmeno la partecipazione al film militante “No One Knows About The Persian Cats“, panoramica critica in salsa rock’n’roll sulla situazione surreale della casbah iraniana.
E quali confini ha, oggi, il mondo di Anoosh e Arash? Attualmente la vita dei Blade&Beard lontano dall’Iran è quella dei rifugiati, letteralmente. Sono riusciti ad ottenere un visto permanente e vivono in una zona montana della Svizzera, tra le pecore, e si sentono un po’ come in certe zone rurali dell’Iran, probabilmente. Tuttavia hanno un tour con un tot di date in Europa per tutto il mese di aprile e la loro storia sta facendo il giro del mondo.
Quel che è certo è che in un Paese con una tale, asfissiante, “supervisione” dall’alto è bene riservare un plauso doppio agli esempi di arte ispirata e indipendente. E il paradosso è che ce ne sono, eccome!Spostandoci dalla dancefloor al grande schermo, si registra un momento di grande ispirazione per il cinema Made in Iran (celebrato anche dalla roccaforte d’essai del Cinema Massimo, con una rassegna ad hoc); riflettori puntati anche sul proscenio teatrale, dal momento che è stato recentemente dato alle stampe il volume “The first book of iranian theater“, che si fa promotore di un sistema-teatro addirittura aperto a privatizzazioni (che bypassi dunque la morsa statale).
–
–