Al Cinema Massimo, in collaborazione con il Bergamo Film Meeting, il mese di aprile è dedicato a Miloš Forman, la cui lunga carriera viene ripercorsa a partire dai primi lavori in Cecoslovacchia fino alla stagione hollywoodiana.
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_di Silvia Ferrannini
Quando, in seguito al XX Congresso del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, il «rapporto Chruščëv» diede il via alla destalinizzazione, il disgelo che ne seguì investì in modo profondo e autenticamente innovativo anche la cinematografia dell’Europa orientale. Non che le istanze delle coeve nouvelle vagues occidentali non esercitassero un forte ascendente: ma è certo che gli artisti figli di questo momento storico e sociale seppero sviluppare una propria peculiarissima poetica, contro l’establishment e la “cultura dei padri” e a favore di nuove forme libere d’espressione.
Alla retorica del socialismo reale si oppone il discorso sull’uomo; al culto della personalità del singolo si sostituisce la fenomenologia della quotidianità dell’individuo comune.
Ad aprire le danze di questo cinema del disgelo sono pellicole come Il quarantunesimo (1956) di Grigorij Čuchraj, Quando volano le cicogne (1957) di Michail Kalatozov, o ancora Nove giorni in un anno (1962) di Michail Romm, per arrivare poi al magistero di Andrzej Wajda con pellicole come I dannati di Varsavia (1957) o Cenere e diamanti (1958) e all’esordio nel 1962 (Il coltello nell’acqua) di Roman Polanski: ma la più libera e feconda primavera è proprio a Praga, in quella Cecoslovacchia la cui avanguardia artistica guarderà sempre verso ovest, ma senza mai sradicarsi dalla propria terra e dal proprio contesto sociale. Qui si apre la Nova vlnà (che significa esattamente nuova ondata): qui nasce il cinema di Miloš Forman.

Nato a Čáslav il 18 febbraio 1932, Jan Tomáš Forman è uno dei tanti giovani e volenterosi registi che fece la fila davanti alle case di produzione per poter fare il suo lavoro. A soli 12 anni i nazisti gli deportano il padre; la madre, di origine ebraiche, muore ad Auschwitz. A Náchod, cittadina della Boemia in cui andrà a vivere con gli zii, s’innamora del teatro, ma i nazisti nel ’44 lo chiuderanno, così come tutti gli altri teatri del Paese. Morte dei genitori, morte degli amati spettacoli: se simili traumi porterebbero i più alla chiusura ermetica o, nei peggiori dei casi, allo squilibrio, in Forman si traducono in tensione emotiva e si riversano nell’arte. Repressione ed espressione sono, paradossalmente, le parole cardine del suo discorso: i due poli convivono senza soffocare il naturale divario che li divide, permettendo così al vigore e all’inquieta ironia di sbocciare e articolarsi in questo singolarissimo spazio.
Questo è, sostanzialmente, il fil rouge dell’ispirazione formaniana, il quale in un primo momento si dipana in commedie generazionali come L’asso di picche (1963), storia malinconica di un giovane operaio senza speranze e prospettive future, e Gli amori di una bionda (del 1965 e restaurato proprio adesso dalla Cineteca di Bologna); quest’ultimo film in particolare, dal sapore amaro ma tenero al contempo, s’imporrà all’attenzione internazionale. A partire da un soggetto incredibilmente semplice (la deludente scoperta dell’amore da parte di una ragazza), innestato su una struttura narrativa libera ma potente, Forman provoca buttando l’occhio laddove non si dovrebbe guardare e fa poesia raccontando con levità e sottile humor proprio quella realtà in cui si è intrufolato.
Aleggia sempre l’angoscia, ma si nasconde nelle sembianze quasi caricaturiali dei giovani protagonisti delle sue pellicole.

Vista la buona risposta dal pubblico e dalla critica, Forman azzarda e dà vita ad una singolarissima satira corale, Al fuoco pompieri! (1968), affascinante ed alienante al contempo. La critica (e la beffa) qua sono fin troppo scoperte, e il film deve fare i conti con la censura: il regista non perde tempo ed emigra negli Stati Uniti prima che si dissolva l’ispirazione. L’atterraggio nel Nuovo Mondo non sarà così morbido (e anche per Polanski sarà lo stesso) e si accentuano gradualmente il sarcasmo e il cinismo, sempre animati tuttavia da un’ironia che è metabolizzazione del tragico e misura della sofferenza.
I protagonisti di Forman appaiono insetti kafkiani, intenti a dibattersi e girare a vuoto per darsi una ragion d’essere e di vivere.
Proprio in questa prospettiva d’impotenza nascono Taking Off (1971), premio della giuria a Cannes, e il capolavoro che ha reso davvero celebre il cineasta, Qualcuno volò sul nido del cuculo (1975).
L’interpretazione magistrale di Jack Nicholson basterebbe, ma questo capolavoro è fatto di tante cose: una storia toccante ma non romanticamente moralista; una critica sociale mai gridata a gran voce, bensì fondata sull’osservazione concreta dell’uomo; un linguaggio rigoroso che monta immagini e suoni senza ridondanza ed eccesso. Che un autore come Forman s’imponga ad Hollywood con un lavoro simile non è banale, soprattutto alla luce del fatto è riuscito a dire la sua senza nulla togliere alla sua personalissima concezione del mondo e dell’uomo, pur rimanendo dentro la grande macchina produttiva americana, tra box office, grandi budget e attori di prim’ordine. In Qualcuno volò sul nido del cuculo in effetti non manca il senso dello spettacolo, ma la denuncia degli istituti che dovrebbero tutelare invece di reprimere viene espressa con una discrezione che, in certi punti, è proprio luminosa eleganza.
Molti sostengono che l’intensità espressiva di questo film non verrà raggiunta nelle pellicole successive, ma Forman registrerà altri importanti successi con il musical Hair (1971), la gaudente e libertina biografia su Mozart (Amadeus, 1984, insignito tra l’altro di ben sette premi Oscar tra cui queli per il film, la regia e la sceneggiatura) e il seducente Valmont (1989), ispirato al provocatorio romanzo epistolare di Choderlos de Laclos (interessante sfida da parte di Forman, se si pensa che appena un anno prima Stephen Frears traeva dalla stessa opera il grande successo di botteghino Le relazioni pericolose).
Attraverso altre pellicole come Man on the Moon (1999), Larry Flynt (1996)e Goya. L’ultimo inquisitore (2006), cosa rimane del registra della Primavera praghese e cosa lo consacra come accattivante e assolutamente originale figlio adottivo di Hollywood? Tra immaginari mittleuropei e suggestioni americane, la prospettiva del Cinema Massimo ripercorre quasi interamente la carriera del regista cecoslovacco dandoci così l’opportunità di farsi una personale idea in merito.
