I Notwist presentano al Monk di Roma il nuovo disco “Superheroes, Ghostvillains & Stuff”. Sembra che i fratelli Acher riescano a donare un imprinting differente ad ogni live…
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_di Martina Lolli
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Forse la cosa più sconvolgente di un live dei Notwist è che non è mai lo stesso: com’è naturale, cambia la selezione dei brani proposti, ma cambiano anche gli arrangiamenti, la veste della band, il sound. E a rinnovarsi è anche il pubblico che ieri sera al Monk di Roma contava molti ragazzi, sintomo che la loro ricerca riesce sempre a essere all’altezza del proprio tempo.
In cinque sul palco, i Notwist hanno regalato due ore di energico live saturando la sala con un sound compatto in cui è difficile discernere fra suono analogico ed elettronica e nel quale si avverte tutta la loro sinergia.
«Tutto nelle canzoni dei Notwist è calibrato per modellare un’atmosfera panica e immersiva»
“Signals”, primo brano proposto, lancia la chiave di volta di un concerto che vive di riverberi: il delay sognante della voce, il fragore delle note basse che pulsano nel cuore, ci mostrano come la band non si limiti alla costruzione perfetta di canzoni attuali, ma a creare un’esibizione che possa vivere sottopelle. I cambi di mood si insinuano lentamente, raggiungono il climax con la nenia di Markus Acher che ripete sussurrando il verso “See what’s coming on” di Into another tune, irrompono violenti nei giochi di luce al limite dello shock che sottolineano il rumorismo chitarristico in “Puzzle” (una fugace incursione nel lontano 1995, dall’album “12”, quando la band tedesca si accingeva alla svolta electro), per un finale noise in cui perdersi è d’obbligo.
Perché tutto nelle loro canzoni è calibrato per modellare un’atmosfera panica e immersiva: all’improvviso ci si ritrova in altre stanze sonore con la sensazione che questi passaggi siano del tutto naturali, quasi “fisiologici”, stati d’animo in evoluzione che non si contraddicono ma si mostrano nella loro complessità.
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Il cantato “slacker” plasma un’atmosfera intima, forgia una musica da ascoltare ad occhi chiusi che viaggia sui ricami melodici del vibrafono di “Come in”, si sofferma sulle dissonanze interne di “This room”, sulle sue lievi stonature e i livelli sfalsati che nell’ambiente noise del brano ripete la stessa frase all’infinito, una sorta di mantra che diviene traccia indelebile dell’anima dal sentore psichedelico.
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Dal ritmo incalzante di “Kong” alla sorprendente deriva dub di “Pilot”, in questo live le chitarre sono ridotte, lasciano spazio alla ritmica partecipata di “Trashing days” mentre il glitch onirico di “Pick up the phone” apre il bis e fa da viatico alla struggente “Consequence” che vive della dolcezza del riff del piano; e quando il brano sembra darsi per scontato subentrano delle interferenze a ricalibrare gli animi e tornare a farli sintonizzare sulla medesima frequenza.
Con “Gone gone gone” in chiusura il caos strumentale si ricompone e diviene narrativa sommersa da cui è difficile separarsi.
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