Le Favole Fuorilegge e i “criminali onesti” di Nicolai Lilin

A Biennale Democrazia Nicolai Lilin, autore della notissima Educazione Siberiana, presenta la sua ultima creatura letteraria, Favole Fuorilegge. Con l’intervento del criminologo e giurista Marco Bertoluzzo stimola un discorso ulteriore sui linguaggi, i codici, la genealogia dell’etica. A introdurre l’incontro Mauro Berruto, amministratore delegato della Scuola Holden.

_di Silvia Ferrannini

Se è vero che le favole sono sempre un po’ fuorilegge, in quanto sovvertono le leggi della realtà con il semplice fascino del racconto e dell’invenzione, quelle di Nicolai Lilin lo sono in tutto e per tutto. Radunate in Favole Fuorilegge (edito da Einaudi), i piccoli racconti trasmessi a Nicolai dal nonno durante l’infanzia sono scorci di una Siberia ancestrale e vivissima malgrado il gelo, dove la taiga protegge briganti che depredano per buone cause, le Madonne imbracciano le armi e castigano i malvagi, la natura sovrasta l’arroganza degli uomini e impone la propria giustizia. Contro le vessazioni degli oppressori e delle istituzioni corrotte, la vera anarchia agisce attraverso la natura e le sue creature, guidando così un multiforme corteo umano verso il ripudio del potere costituito.

Bene e Male non sono dunque che categorie i cui usuali connotati possono mutare radicalmente per diventare qualcosa di totalmente diverso, se non proprio opposto. Ma l’autore della celeberrima Trilogia Siberiana (che comprende Educazione Siberiana (2009), A caduta libera (2010) e Il respiro del buio (2011)) non ama filosofeggiare, e nelle fiabe trasmessegli dal nonno trova la verità onesta di cui ha bisogno.

«Dall’esterno ci impongono una verità, un blocco di conoscenze, di leggi, in una parola una cultura che non è onesta ed equa per tutti. Mio nonno era solito dirmi che ci sono molte verità, ma solo quella di Dio è vera. Il problema degli uomini è che pretendono di possedere la verità e di propinarla agli altri, ma in quanto peccatori non ne abbiamo il diritto. Bisogna essere sensibili e mediare, sacrificando anche una parte dei nostri interessi»

Quando si tratta di argomentare Lilin sa essere secco ma molto, molto preciso. Le parole che privilegia sono onestà e corruzione, guerra e giustizia, Italia e Russia. Antitesi evidenti, certo, ma anche segni linguistici di un vissuto tortuoso (educato secondo i dettami dei “criminali onesti” Urka siberiani, poi cecchino a soli 18 anni in una squadra d’assalto russa durante la guerra in Cecenia, poi nel 2003 l’arrivo in Italia) che incide e brucia, come un tatuaggio.

«La parola criminalità in Russia può avere un’accezione diversa rispetta a quella che ha in Italia: infatti fa riferimento a una resistenza alla corruzione»

Proprio il tatuaggio costituisce la base della comunicazione tra i criminali onesti in mezzo ai quali Lilin si è formato. In prima battuta chiarisce che «la parola criminalità in Russia può avere un’accezione diversa rispetto a quella che ha in Italia: infatti fa riferimento a una resistenza alla corruzione, che per noi è sempre rappresentata dal potere politico, dal momento che chi, impostore, assume un ruolo importante nel governo compie danni di entità ben maggiore rispetto a quelli che può fare il piccolo rapinatore di banche. Perciò per noi comunità criminali, opponendoci al potere costituito, abbiamo dovuto sviluppare una forma di comunicazione alternativa e segreta, per riconoscerci tra noi simili».

Il suo gruppo di appartenenza, legato a regole arcaiche e sorvegliato dagli anziani (la cui devozione è quasi oggetto di culto per i giovani fuorilegge), ha creato così un autentico linguaggio per potersi riconoscere tra simili e affermare la propria presenza, come i lupi che abitano le steppe siberiane. L’antichissima tradizione dei tatuaggi (che Lilin stesso disegna e appone accanto ad alcuni racconti delle Favole) costituisce dunque un vantaggio dal momento che ti rende immediatamente riconoscibile e vicino a chi lotta con te. «Io ho cominciato a tatuarmi a 8 anni e ho smesso a 20: in questo modo crei sulla tua pelle una narrazione, un racconto di quello che sei». Ecco perché sarebbe impossibile concepire un’«enciclopedia» dei tatuaggi di questa tradizione: è un universo iconografico che a noi, estranei, deve rimanere sconosciuta.

Per Nicolai e i suoi compagni la parola non aveva valore: «Era una cosa poco credibile. Solo quel che incidi sulla pelle è vero»

I segnali di comunicazione erano anche altri, come le scritte nei punti d’incontro o gesti. «Per noi era importante avere un linguaggio per non crepare e renderci irriconoscibili dai nemici. Era questione di sopravvivenza». Una necessità dunque, che non ha niente a che vedere con le mode dei piccoli gangster di oggi, ispirati ai film e alla televisione. La malattia non sta in chi intraprende la strada della criminalità ma nella società, che non sa distinguere il bene dal male e, conseguentemente, non riesce ad insegnare ai suoi membri a riconoscere questa differenza. La mia esperienza mi ha illustrato che la vita è come il caffellatte: una volta mischiati non distingui più latte e caffè. E così è per il bene e il male, il buono e il cattivo».

Quel che, ascoltando Lilin ha colpito il criminologo Marco Bertoluzzo, è l’accento posto all’irrilevanza della parola.

«In effetti i violenti non parlano, fanno. La parola illude, maschera il gesto. E va detto: il gesto fa male a chi lo riceve, ma anche a chi lo mette in atto. E’ la caratteristica peggiore del male: nuoce a entrambe le parti. Nella mia vita ho incontrato pochi criminali, per così dire, sereni: sono sempre in profonda discussione rispetto a se stessi e al loro passato, e anche al loro futuro»

Spesso, afferma il criminologo, diventa più importante valutare gli effetti del male, più che la sua origine. E’ soprattutto importante non enfatizzare più del dovuto: «Oggi si parla tantissimo, ad esempio, delle baby gang. E’ così vero parlare di gang, di bande?
A ben guardare sono gruppi giovanili che si aggregano perché legati tra di loro da intenzioni simili (in questo caso, commettere rapine, furti e altri atti di vandalismo) e poi si dissolvono. L’essere vincolati da codici, linguaggi, gerarchie così come racconta Lilin è molto diverso rispetto a quello che possiamo vedere noi in Italia, e sono caratterizzate da una struttura solida.

Definire allora grossolanamente gang qualsiasi gruppetto di delinquenti che provoca disagi può essere un errore ed è bene porre delle differenziazioni. I modelli sono due: quello nordamericano e quello latino americano. Il primo comprende membri di età anche molto diverse, che si contrappongono alla società (e qui esiste una lettura sociologica per cui la mancanza di disponibilità di mezzi per arrivare alle mete che il sistema stesso ci propone suscita questo sentimento di opposizione), si ritrovano spesso in una condizione familiare instabile e non hanno sicurezza in se stessi. Proprio per questo motivo il gruppo diventa appartenenza, identità, storia: così la banda è cultura e fa cultura (il mondo del cinema ce ne ha parlato molto). Il secondo è un modello aggregativo diverso perché fa agire soprattutto i bambini e dà vita ad un piccolo cosmo protetto, dove la povertà dilaga e lo stare insieme è dettato dalla sopravvivenza.

«La mia esperienza mi ha illustrato che la vita è come il caffellatte: una volta mischiati non distingui più latte e caffè. E così è per il bene e il male, il buono e il cattivo»

Specificate queste caratteristiche, si può parlare del contesto in cui viviamo. Che dire, ad esempio, della criminalità torinese? «A Torino la vera criminalità di banda si è avuta negli anni’70, dove nelle periferie come a Mirafiori Sud, Le Vallette, Falchera c’era un’aggregazione giovanile che si costituiva secondo l’esperienza che i membri avevano di quel territorio. Le caratteristiche c’erano tutte: il leader, lo slang, la gerarchia, il linguaggio, il rito d’iniziazione e, soprattutto, la definizione del proprio territorio. Per la serie: se tu entri nei miei spazi, rischi. Quella era il segno della loro identità e quel che permetteva a un gruppo di contrapporsi agli altri. Quando poi entrava in gioco la droga, saltava tutto» prosegue Bertoluzzo.

Se oggi osserviamo le piazze, gli angoli delle strade, i marciapiedi, è evidente che questo sentimento aggregativo si è pressoché estinto, così come la percezione di appartenenza a un territorio stabile e definito. Lo stare insieme, in tutte le sue forme, è relativo: i ragazzi ogni tanto si uniscono, combinano qualche guaio, si atteggiano e finisce lì. Riappare qui lo spettro dell’apparenza, dell’atteggiamento, del sembrare perché essere è più faticoso: buttare un occhio su una concezione di comunità nettamente diversa stimola il ridimensionamento e la rilettura di questi fenomeni.

In Favole Fuorilegge Lilin ci racconta che per illustrare la propria resistenza ai regimi e alla corruzione c’è chi è disposto ad incarnare un ossimoro, a diventare “criminale onesto”, a venerare le leggende, a esibire le cicatrici. Nel libro c’è tanta Russia, ma anche mille altri luoghi.