Kurosawa: Sette Samurai e quarant’anni di Cinema

L’ampia retrospettiva porta ben quindici titoli di uno dei maestri più apprezzati del cinema di tutti i tempi. Grande affluenza di pubblico sabato sera per la proiezione de “I sette samurai” al Cinema Massimo di Torino, preceduta dall’intervento del professor Dario Tomasi.

di Alberto Vigolungo Nel panorama composito del secondo dopoguerra, in un periodo di importanti contributi che condurranno il cinema alla sua dimensione “moderna”, il cinema di Kurosawa è apparso come “stella polare” per il cammino che la settima arte avrebbe intrapreso negli anni a venire, illuminando soluzioni in grado di toccare livelli d’espressione altissimi con una forza particolare. Akira Kurosawa esordisce alla regia quando il suo Paese è ancora in guerra, testimone di una realtà che di lì a poco verrà cancellata dalla storia e che non saprà mai più davvero riappropriarsi di se stessa. Ha trentatré anni e un notevole bagaglio culturale che spazia dall’epica alla letteratura e al teatro, fino alla pittura: la passione per l’arte in tutte le sue forme, plasmata negli anni dell’adolescenza dal fratello maggiore Heigo, commentatore di film musicali che lo avvicina anche al cinema. Heigo è la figura-guida nella formazione del futuro cineasta, che modella così quel sincretismo che sarà una delle cifre del suo cinema, universale. Come spiega Tomasi:

“Kurosawa è maestro nel mischiare modelli e stilemi propri alla cultura giapponese con quelli dell’Occidente, come nemmeno Ozu e Mizoguchi”

Marathon film: Akira Kurosawa on the set of his 1954 epic “Seven Samurai”

Una commistione di forme che ben convivono nel suo cinema, capace di mettere in contatto e far dialogare universi lontani per temi e atmosfere, fino ad allora ritenuti inconciliabili in Giappone: “in esso l’astrazione del teatro No si coniuga con i motivi comico-picareschi del Kabuki”, ricorda Tomasi. Un gusto per il contrasto che si riflette nella caratterizzazione di personaggi dalle molte facce, funzionali a esprimere le contraddizioni di un Paese che ha subìto le conseguenze più devas-tanti della guerra: uomini animati da un senso del dovere dal sapore antico, che si misurano in un contesto sociale in rapido mutamento, quello del Giappone a cavallo fra gli anni Quaranta e Cinquanta, invaso dai feticci della cultura americana (vedi rappresentazione dell’imperdibile partita di baseball o degli spettacoli di varietà in fumosi locali di periferia, pratiche di divertimento assolutamente estranee al Giappone di pochi anni prima). E’ la dedizione che guida il poliziotto Murakami in “Cane randagio”(Nora inu, 1949), la stessa che anima l’affannosa ricerca di riscatto del signor Watanabe in “Vivere” (Ikiru, 1952), nella memorabile interpretazione di Takashi Shimura.

Nel connotare personaggi dalla particolare levatura morale, Kurosawa si guarda bene da una possibile mitizzazione, come si osserva ne “I sette samurai”, in cui questi ultimi accettano di difendere un piccolo villaggio di contadini minacciato dalle incursioni dei briganti, nel panorama delle Guerre Civili alla fine del XVI secolo. Alternando spettacolari sequenze di combattimento a momenti di scherzo e convivialità, Kurosawa mette in luce il lato umano, le debolezze di questi personaggi: ognuno con la propria storia, ognuno accomunato con gli altri da quel senso dell’onore che porterà persino il più strampalato della compagnia a morire con coraggio. Ed è in un film come questo che si manifesta ancora una volta l’elemento che forse meglio contraddistingue la grande lezione di Kurosawa: il suo sincretismo, la capacità di far dialogare generi cinematografici allora concepiti distanti, con esiti di nota. Chiarisce Tomasi:

Il gusto del regista giapponese per un cinema d’azione, spettacolare, coniuga aspetti del cinema d’autore e del cinema di genere. Negli anni Cinquanta, tutto ciò fa di Kurosawa l’unico fra i grandi registi a dare una connotazione “d’autore” al cinema d’azione

 

Al di là di questi aspetti, ciò che sempre si è certi di trovare in un film di Kurosawa è la forza della rappresentazione, costruita sapientemente grazie anche a un’approfondita conoscenza delle arti visive, a cui il cineasta nipponico era dedito fin da bambino. Ma se molti registi successivi si sono ispirati a Kurosawa per il suo filmico (si pensi a Sergio Leone e ai suoi western “d’autore”), non tutti hanno riposto come lui una profonda fiducia nel lavoro attoriale. Sempre Tomasi:

“Kurosawa è l’autore che ha lavorato di più sulle potenzialità espressive dei suoi personaggi, sulle posture in particolare”

Movimenti pro-filmici e pose dotati di una forza propria, intervenendo ora sulla drammaticità di un evento, come si osserva nei samurai prima di un combattimento, ora a riportare una condizione esistenziale, come denotano le posture incerte dei contadini intenti nel loro lavoro quotidiano, o quella di un Kanji Watanabe impegnato a rendere un servizio alla comunità, e quindi dare un senso alla propria esistenza. Kurosawa è interessato alla rappresentazione di uno sforzo che si consuma nel dolore per il proprio passato, nel dubbio persistente, vera cifra della condizione umana.

“Un samurai dietro la macchina da presa. Omaggio a Kurosawa Akira”, al Cinema Massimo fino al 31 Marzo. Clicca qui per il programma completo del Cinema Massimo. 

Vuoi collaborare con OUTsiders webzine?
Clicca qui!