Carolyn Christov-Bakargiev, direttrice del Museo d’Arte Contemporanea del Castello di Rivoli e della GAM, presenzia all’intervento dell’artista nigeriana in apertura della mostra sulla dirompente potenza espressiva del colore: a Torino arrivano 400 capolavori di 130 artisti dal `700 ad oggi.
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_di Miriam Corona
Dal 14 marzo è aperta al pubblico la mostra che ripercorre i grandi momenti della storia dell’arte dominati dalla filosofia del colore “Colori: l’emozione del colore nell’arte” che si terrà in contemporanea presso la GAM e il Castello di Rivoli. Per l’occasione si è tenuta una conferenza presso l’Accademia Albertina di Belle Arti presieduta dal direttore stesso dell’accademia Salvo Bitonti, dal presidente Fiorenzo Alfieri e dalla direttrice dei musei presso i quali si terrà la mostra Carolyn Christov-Bakargiev.
Alfieri introduce l’incontro augurandosi che l’esposizione si renderà appetibile ai molti, pur non essendo una mostra “blockbuster”, termine che negli ultimi anni è stato usato negativamente per indicare le purtroppo crescenti rassegne di “capolavori a caso” organizzate col mero fine di attirare a tutti i costi le masse, tralasciando spesso il valore stesso dell’arte esposta. Il presidente dell’Accademia conclude il suo intervento tenendo a ricordare che la mostra è stata allestita dagli studenti stessi; poi prende la parola Carolyn Christov-Bakargiev. Quest’ultima funge anche da interprete per l’ospite d’onore della conferenza, l’artista contemporanea nigeriana Otobong Nkanga, che sostituisce la film-maker e artista tedesca Hito Steyerl, trattenuta in Germania a causa di uno sciopero, definendo l’imprevisto una situazione “win-win”, visto che oltre all’incontro con la Nkanga si terrà un’altra conferenza con la Steyerl il 10 Aprile.
Otobong inizia la presentazione definendosi una “activist” dell’arte, considerandola una pratica sociale che ha uno stretto connubio con il contesto urbanistico e la comunità che lo rappresenta; esso diventa lo scenario per la rappresentazione di quest’idea, che per essere realizzata coinvolge l’attenzione alla vitalità dei materiali in senso estetico ma soprattutto politico, come si evince dalle opere e performances che illustra durante l’incontro.
«Lo scopo principale, che Otobong ribadisce più volte, è quello di avvicinare lo spettatore a ciò che lo circonda e di portarlo quindi a una riflessione sul suo rapporto con esso»
Il primo lavoro che espone tramite una presentazione di foto è “Taste of a stone” (2010), installazione che si ambienta in due sale espositive del Kunsthal Charlottenburg di Copenhagen, appositamente concepite per poter avere un rapporto ravvicinato con la pietra, protagonista dell’opera; la prima sala è occupata da fotografie e poesie concernenti il tema della roccia, che viene intesa ambivalentemente come strumento e come arma, richiamando l’archetipo di questo materiale. La seconda sala è allestita come un giardino di meditazione, formato da pietre disposte sul pavimento dalle quali prorompono delle piante. I visitatori sono circondati da elementi visivi, tattili e uditivi (camminando sulla ghiaia che ricopre il pavimento si possono avere tutte e tre le sensazioni) e ogni azione individuale rispetto all’installazione porta all’evocazione di sensazioni e memorie diverse. Lo scopo principale, che Otobong ribadisce più volte, è quello di avvicinare lo spettatore a ciò che lo circonda e di portarlo quindi a una riflessione sul suo rapporto con esso.
L’opera successiva presentata è una performance della durata di circa 9 ore intitolata “Contained measures of shifting states” (2012) eseguita nei Tanks della Tate Modern di Londra. La Nkanga parte da una riflessione sui modelli di politica di rappresentazione e politica del flusso; il primo concetto è da considerare oramai superato: l’idea di rappresentazione ha chiuso per secoli le menti e le nazioni, “arrestando la vita”, dice Otobong, e dunque “appartiene al passato”. Da qui scaturisce l’dea di società non come un’entità statica, bensì come una raccolta di flussi molteplici che si sovrappongono e formano la storia.
Ma come dare forma a questa visione? L’artista decide di allestire quattro tavoli di varie forme e grandezze, ognuno dei quali rappresenta il flusso in diversi modi.
Il primo presenta una struttura cubica in feltro che per tutta la durata della performance assorbe un liquido che gradualmente lo macchia, fino a intingerlo nella sua interezza. L’idea deriva da un’esperienza vissuta nel paese della sorella dell’artista in Nigeria: una diga costruita in Camerun aveva cambiato radicalmente il microclima della Nigeria, causando in tutta l’area, compresa l’abitazione della sorella, una forte umidità e di conseguenza la comparsa di muffe: questo per dimostrare come un’azione seppur distante abbia conseguenze fenomeniche in un altro luogo, così come il liquido macchia gradualmente il tavolo, contaminandolo.
Il secondo tavolo ha sopra di esso una lastra rovente (450°) sulla quale sgocciola dell’acqua che evapora al contatto con essa, a significare che il cambio di stato rende le cose visibili – invisibili, e viceversa, ponendo l’osservatore di fronte a quel tipo di mutamenti sociali che si trasformano e si sviluppano così repentinamente da essere quasi persi di vista mentre avvengono.
Sul terzo tavolo è presente un cumulo di ghiaccio che, sciogliendosi e diventando acqua, si riversa nei solchi del tavolo, fino a scorrere via dentro dei vasi; questa è l’interpretazione che l’artista dà alla quantità di cose che, nonostante siano invisibili, influiscono sulla vita quotidiana di ognuno di noi. L’artista siede al quarto tavolo circondata da 100 immagini fotografiche (24 delle quali sono di opere che hanno ispirato la performance) e rappresentano vari contesti: alcuni sono più espliciti, come paesaggi, animali, opere naturali, altri meno ovvi, come un grafico matematico, fino a immagini del tutto implicite, come una grande foresta vista dall’alto che nasconde sotto le sue fronde la devastazione compiuta dalla guerra.
Il pubblico osserva queste immagini e Otobong assiste alle reazioni che suscitano in esso: alcune persone rimangono indifferenti, altre creano vere e proprie discussioni, che in certi casi diventano addirittura litigi nei quali l’artista ha assunto un ruolo da mediatrice. Il risultato è la costruzione di molteplici verità nella mente umana da parte di un’immagine. Ognuna di esse è tanto valida quanto un’altra, ma ciò che è più importante non è in che cosa consiste la risposta dell’osservatore, bensì l’azione stessa che innesca il processo di reazione: qualcosa di impalpabile sta accadendo nella stanza ed è tutto ciò che conta.
L’ultima opera presentata è “Contained measures of a Kolanut”, concepita nel 2012 per il Castello di Rivoli e ancora in sviluppo, basata sull’energia che si crea nella relazione tra piante e vita sociale. L’idea parte dall’interesse dell’artista riguardo la rivoluzione dell’industrializzazione e del lavoro avvenuta tra ‘700 e ‘800 e le numerose ricerche etnografiche e botaniche del periodo, colpita soprattutto dalla quantità di cose alle quali si dà per la prima volta un nome e una definizione. In questo senso si concentra sulla storia di come certe piante sono state introdotte in luoghi occidentali da posti esotici, in particolare dall’Africa occidentale, assoggettate dal dominio economico che gli ha imposto prezzi non indifferenti.
Questo tipo di processo non è avvenuto però con la noce di Cola, un frutto amaro dalle proprietà dissetanti che ha ricoperto un ruolo importante a livello spirituale e rituale nelle popolazioni nel corso della storia. Prima di diventare nota con la tarda diffusione in America del Nord da cui poi è nata la più famosa bevanda, era utilizzata in una miscela insieme alla cocaina per la creazione di una medicina che venne considerata rivoluzionaria grazie alle sue straordinarie doti eccitanti. Otobong riflette sul passaggio della noce di Cola dall’ambito medico a quello consumistico creando un rapporto unico con lo spettatore, che durante la performance spezza la noce e la condivide con l’artista, riportandola nella sfera delle attività sociali originarie dell’Africa, dove mangiarla insieme a un’altra persona non è solo simbolo di cordialità ma anche dell’instaurazione di un profondo rapporto di fiducia tra coloro che ne fanno uso.
Conclude la spiegazione delle sue opere invitando il pubblico a partecipare alla mostra e sollecitandolo alla riflessione sui temi trattati durante l’incontro: il sempre più contrastante rapporto tra l’uomo e ciò che lo circonda, a partire dalla natura fino ai suoi simili, e la mancanza di rispetto che si manifesta nei suoi confronti.