Qual è la relazione su uno spazio scenico tra corpo, amore e suicidio? Ci risponde Anna Alarcón, intensa interprete dell’opera della drammaturga inglese Psicosis de les 4.48, a cui abbiamo assistito presso il Teatre Lluïsos.
Mentre cammino accanto a Federica per andare al Teatre Lluïsos di Barcellona, due pensieri a mi accompagnano.
Il primo: il timore, giustificato da disastrose esperienze precedenti, che andare a vedere una rappresentazione di Psicosi de les 4.48 di Sarah Kane significhi trovarmi davanti all’ennesima prova di iper-recitazione, urla sguaiate ed espressioni caricaturali.
Il secondo: una lettera che Juan Mayorga, uno dei drammaturghi spagnoli più rappresentativi (e rapresentati della cosiddetta Generación Bradomín, che aveva partecipato a un laboratorio estivo della sua collega inglese. Perfettamente consapevole di come sono entrata in contatto con quello scritto, non saprei tuttavia citarne esattamente la fonte per riportarne il testo, ma suonava più o meno così:
“Il ricordo più chiaro che ho di Sarah Kane è lei che si muove sul pavimento disegnando immagini con il suo corpo dicendo parole che non ricordo, ma che sicuramente raccontavano l’amore. Sarah non è morta perché detestava la vita, ma perché la amava in un modo eccessivo.”
Quando dopo lo spettacolo ne parlerò con Anna Alarcón, l’attrice catalana che stanotte per noi ha raccolto la sfida e l’essenza del messaggio della controversa e meravigliosa Kane, saremo d’accordo sul fatto che Mayorga ha colto i due pilastri di tutto il teatro di Sarah: il corpo e l’amore.
“Non conosco questa lettera e dopo mi dirai esattamente di che si tratta ma è proprio a partire da qui che abbiamo progettato lo spettacolo, l’ho scritto anche in una nota: per me questo è un grido alla vita. Ciò che accade è che lei aveva una grandissima incapacità di viverla bene, ma io desideravo muovermi verso la luce, non verso l’ombra.
La morte per lei è una liberazione, e io la rispetto, provo a mettermi nei suoi panni e capisco che in ogni caso l’amore è la base: questo l’ho avuto chiaro fin dal principio. C’è una necessità di amare e di essere amata che va oltre ogni cosa, è l’amore leitmotiv presente in ogni quadro e a partire da lì ho potuto lavorare su di lei. È il motore: amore-disamore-amore-disamore, e tutto il vuoto che questo comprende. Tutte queste emozioni sono già nel nostro corpo, basta solo cercarle per provare a riempire quel vuoto stesso.”
La sua voce è profonda, vibrante di emozione eppure straordinariamente fiera e ferma, mentre, sedute insieme sulle poltrone ormai vuote, condividiamo una chiacchierata straordinariamente intima. Nemmeno la tinta arancione estremamente fuoriluogo delle pareti, né i due ragazzi che smontano la scenografia scarna ma funzionale possono raggiungerci e disturbarci. Alle mie domande risponde sempre, inizialmente, chiudendosi in un lungo silenzio, tanto intenso che a volte penso di non essermi espressa correttamente in spagnolo, e che lei non mi abbia capita, e solo in un secondo momento comprendo ciò che sta accadendo.
È esattamente ciò che ho visto sul palco: Anna che ci aspetta in sala, seduta su una sdraio di legno che ricorda una sedia elettrica, ed è già pazza, totalmente serrata in se stessa, e in quel momento mi ricorda Nicole Kidman, quando in un’intervista le chiesero come, con Stanley Kubrik, avesse raggiunto in una scena di Eyes Wide Shut un livello interpretativo tale per cui sembrava che prima ancora di iniziare a recitare avesse pianto per ore.
“Ho pianto per ore” fu la risposta.
Interno-esterno. Dentro-fuori. Relazione-non relazione.
Di quel vuoto Anna mi parlerà ancora, e anche di quella dinamica per cui il pubblico è a volte presenza assente ma nella maggior parte delle circostanze necessità vitale.
“Per me il contatto con le persone è assolutamente indispensabile. Ci sono repliche in cui la struttura del teatro non mi permette di vedere nulla, accecata dalla luce. Ma anche in quei casi sono molto cosciente della loro presenza, dei momenti in cui ho bisogno di loro e altri in cui non li voglio con me. Ma anche con il regista (Moisès Maicas, ndr) sin dall’inizio siamo stati d’accordo sul fatto che volessimo che fosse come un grande banchetto, non solo il suo universo, ma lei che invita gli amici per comunicare la sua decisione. Lei in relazione con.”
“Perché tutto lo spettacolo è una ricerca di relazione.” rispondo.
“Esatto. E anche in questo lei a volte è settata sull’on, a volte sull’off, ma quando è off è in relazione all’on. Potrei recitare con una quarta parete, ma per me non avrebbe senso.”
“Tradirebbe l’intento di Sarah Kane.” Sono le parole che mi sfuggono autonomamente dalle labbra.
Anna ripete più volte e con forza: “Esatto.”

Sul vuoto e sulle difficoltà di lavorare sul testo, Anna mi dice: “La verità è che è stato tutto abbastanza fluido. La parte più difficile è stata rinunciare a tutto quello che avremmo voluto imporre, e lasciare che fosse il testo a guidarci senza nessun “Mettiamo”, “Aggiungiamo”. Senza alcun elemento addizionale. Tutto questo fuori! Di fatto quando abbiamo presentato lo spettacolo durante la stagione passata a Barcellona c’erano più elementi, mi muovevo davanti e indietro, ma ci siamo resi conto che il testo respingeva tutto ciò che non serviva. Ma arrivare fino a questo punto è un processo perché magari sei tentato di fare più cose, ma anche il regista non è stato affatto egocentrico, non ha mai detto “È così!”, e per questo siamo riusciti a disfare ciò che era in eccesso.
E prosegue:
“Per questo spettacolo ho dovuto svuotarmi di tutto, connettermi con un posto interiore molto profondo e non pensare mai a ciò che facevo in passato. È stato un ricominciare da zero, allontanarmi da tutto per lasciare spazio, e anche se sto lavorando ad altri spettacoli per me ogni volta che mi immetto in questo mi dimentico di me per poter essere un canale di comunicazione. Ho recitato in molte altre opere perché ho iniziato da giovane e – toccando ferro – mi è andata piuttosto bene, ma con Sarah Kane è come dimenticarmi di tutto. Ovviamente l’esperienza che ho fatto finora mi serve ma anche e soprattutto questa opera mi ha insegnato tanto, è come se esistesse un prima e un dopo Psicosi de les 4.48. Soprattutto mi ha aiutato a conoscermi come attrice, e come donna.”
Mentalmente la rivedo sulla scena, schermo bianco e vaso di Pandora delle inquietudini di Sarah Kane. Anna che si contorce sul pavimento, Anna che sta ferma, il corpo di Anna che esegue movimenti minuscoli, apparentemente involontari, frutto di mesi di ricerca, Anna nuda, trafitta da una scia di luce. La luce e il rumore sono le due uniche presenze sul palco, i due burattinai che muovono a volte la marionetta in cui l’attrice si trasforma. La musica è poca (arriveranno i Radiohead a sottolineare un barlume di speranza), l’interpretazione di Anna è magistrale, strappa un sorriso nel momento in cui si sdoppia nei dialoghi tra la paziente e i medici, ed è un miracolo all’interno di un’opera tanto drammatica. Anna sussurra le ultime emblematiche parole (“Amatemi. Guardatemi.”) e nella delicatezza che usa in un momento in cui sarebbe stato più semplice urlare, mentre le luci si spengono, debella definitivamente qualsiasi rischio legato all’eccesso.
Il testo è tradotto in catalano, e per quanto la nostra comprensione della lingua sia buona (e nonostante la conoscenza dell’opera) alcune parole ci sfuggono, ma è totalmente irrilevante: se anche non capissimo assolutamente nulla, il corpo di Anna Alarcón avrebbe già raccontato, solo, l’intera storia. Mi ricordo di una volta in cui, nella città in cui ho vissuto tanti anni, andai a vedere una rappresentazione de La Figlia di Agamennone di D’Annunzio. Lo spettacolo non mi convinse, ma cinque minuti valsero totalmente il prezzo del biglietto: l’ingresso in scena di una ragazza supplicante che recitava in serbo, un idioma per me e suppongo per il pubblico sconosciuto, ma nell’intensità dei suoi gesti giaceva un intero universo.
“Che bello che tu dica questo! Proprio oggi è venuto a vedermi il ragazzo che mi ha aiutata con i movimenti (Guille Vidal-Ribas, ndr), è qui fuori, glielo dirò. Mi sono allenata con lui inizialmente, però poi i movimenti si sono collocati da soli. Bisogna lasciarsi condurre da questo testo brillante, Sarah Kane è spettacolare, così onesta e sincera. Inoltre penso che il monologo non si circoscriva a lei sola ma che universalizzi il suo dolore e per questo molta gente in maniera maggiore o minore si sente identificata.”
Mi torna in mente la maniera in cui venni in contatto con Sarah Kane, almeno 15 anni fa. Un mio amico mi aveva prestato il libro con tutte le sue opere. Ancor prima che la scrittura dell’autrice, mi colpì la forza con cui lui aveva sottolineato alcune frasi, al punto tale che alcune delle pagine risultavano quasi bucate. Quella forza, penso oggi, rappresenta la necessità di identificazione. La ricerca di empatia, di qualcosa che ci rappresenti, la ragione per cui, quando siamo disperati, ascoltiamo canzoni tristi, e non c’è “Passerà, è solo un momento” che tenga quando abbiamo bisogno di sentirci dire: “Ti comprendo. Io sento quello che tu senti.”
“Comprensione, amore, è ciò che cerchiamo. La relazione con qualcuno.” specifica Anna.
Le chiedo infine se lo spettacolo l’abbia stancata fisicamente: “Ora sono ancora piena di adrenalina, ho voglia di bere una birra e stare con gli amici, ma il giorno dopo effettivamente mi sembra di aver fatto una maratona, o di aver ballato tutta la notte.”
“Come una resaca emozionale.” le dico, sapendo già che nel mio articolo non saprò tradurre la magnificenza di una parola che descrive al tempo stesso i sintomi del post-sbronza e la sensazione del mare che disturba e che culla.
“Sì, esatto, come una resaca emozionale.”
Anna sorride, e ci salutiamo così. Quando io e Federica usciamo, nella piazza davanti al teatro c’è un gruppo di ragazzi seduti per terra che suonano la chitarra e cantano “Bailando” di Enrique Iglesias. Il contrasto tra l’allegria del reggaeton e il dramma che ancora viviamo è bellissimo. Fumiamo una sigaretta su una panchina, quasi senza parlare.
Nella testa, ancora rimbombano alcune parole:
“Tagliatemi la lingua
strappatemi i capelli
mozzatemi gli arti
ma lasciatemi l’amore
preferirei aver perduto le gambe
che mi avessero strappato via i denti
cavato gli occhi
piuttosto che aver perduto l’amore.”