La Spoon River del pallone

L’ultimo libro di Gigi Garanzini è l’occasione per rivivere nostalgicamente un calcio scomparso insieme ai suoi protagonisti. A cura di Edoardo D’Amato.

Io ti rincontrerò un giorno, ma non ancora. Non ancora…“: sono le parole con cui si conclude Il Gladiatore di Ridley Scott e che idealmente anche Alan Ruschel, Jackson Follman e Helio Neto devono aver pronunciato quando hanno capito che i loro compagni del Chapecoense avevano perso la vita nel tragico incidente aereo del 28 novembre scorso. La Superga brasiliana: così è stata definita la drammatica vicenda dalla squadra verdeoro attraverso un fil rouge che anche Gigi Garanzini, giornalista sportivo di lungo corso, ha ripreso nella sua Spoon River (concetto che rimanda alla letteratura, ma anche alla musica e a De Andrè) del calcio mondiale.

“Il minuto di silenzio” (Mondadori) è una nostalgica antologia calciofila in grado di raccordare insieme diverse personalità del mondo sportivo che non ci sono più (non solo giocatori, ma anche giornalisti e dirigenti), e al tempo stesso indagare sulle origini di un gioco che non sembra più essere lo stesso, nonostante il pallone continui a rotolare sul manto erboso così come 80 anni fa. In un presente che vede campioni che incarnano essi stessi delle vere e proprie aziende, fa specie pensare ad una figura come Vittorio Pozzo:  due mondiali vinti con la Nazionale, l’unico ad esserci riuscito e per di più consecutivamente (1934 e 1938), ma soprattutto nemmeno una lira di stipendio. Non lo ha mai voluto, ritenendo che gli bastasse già il suo da giornalista. Fa un po’ specie se paragoniamo la sua scelta alla vicenda di Antonio Conte e a cosa ha fatto Tavecchio per riuscire a portarlo sulla panchina dell’Italia.

Vittorio Pozzo portato in trionfo dopo la vittoria di quella che fu la “Coppa Rimet”, nel 1934

Pozzo era un piemontese, “uno di quelli per cui la parola sacra è “ël travai”, come lo amava definire Giorgio Bocca. Un altro allenatore che ha indissolubilmente legato il suo nome a quello della Nazionale è stato ovviamente Enzo Bearzot, il “Vecio”, mentre Nereo Rocco è ancora oggi il tecnico più vincente della storia del Milan. Loro due in particolare avevano due umanità profondamente diverse: il ct di Spagna ’82 era un tipo introverso, quasi arcigno, mentre El Paròn aveva un’attitudine comica, da cabarettista.

Uomini d’altri tempi, come anche Gianni Brera, che spesso si ritrovava ad intervistare Rocco tra una bottiglia di vinello e del buon cibo. 73 anni di grande giornalismo, di neologismi entrati nel linguaggio pallonaro e tuttora presenti (contropiede, intramontabile, uccellare, goleador e centrocampista solo per citarne alcuni): Brera è stato questo, una delle personalità più importanti e influenti del ‘900, che ha saputo inventare un modo italiano di raccontare il calcio. Così descriveva il suo amico allenatore del Milan: “Rocco viene considerato un buon fattore, un uomo rozzo con l’animo buono. Invece è tutto differente: l’aspetto è dell’ex atleta che ha smesso di correre e ha onorato Iddio in tutte le sue creazioni, compresi i cibi buoni e soprattutto i vini“.

Certamente anche la radio rivestì un ruolo fondamentale nel creare dei personaggi davvero intramontabili: pensiamo a Nicolò Carosio, ovvero la voce delle cronache della Nazionale italiana di calcio per oltre trent’anni, al suo erede Enrico Ameri ma soprattutto a Sandro Ciotti.  Con la sua fantastica voce baritonale ha seguito qualcosa come 40 Festival di Sanremo, 14 Olimpiadi, 15 Giri d’Italia, 9 Tour de France e 2.400 partite di calcio nella popolare trasmissione Tutto il calcio minuto per minuto fino al 1996. Come dimenticare il suo addio alle telecronache dopo il triplice fischio di Cagliari-Parma esattamente vent’anni fa? “Vi rubiamo soltanto dieci secondi per dire che quella che ho appena tentato di concludere è stata la mia ultima radiocronaca per la RAI, un grazie affettuoso a tutti gli ascoltatori, mi mancheranno!“. Fu talmente popolare e al tempo stesso “alla mano” che accettò di partecipare come cronista alla telecronaca del match fra Monstars e Looney Tunes nel film “Space Jam”. E’ così che l’ho conosciuto.

Sandro Ciotti, in un’immagine di repertorio

“Ho speso gran parte dei miei soldi per alcool, donne e macchine veloci, il resto l’ho sperperato”

George Best

La Spoon River del pallone però racconta anche storie tragiche e maledette: quella del Grande Torino e del Chapecoense sono forse le più eclatanti per il modo con cui sono avvenute. Ma pensiamo anche ai destini di due giocatori come Meroni e Scirea: il primo prematuramente scomparso all’età di 24 anni, investito mentre stava attraversando Corso Re Umberto, il secondo sempre per strada tra le fiamme della sua Fiat 125, sbandata dopo un urto fatale con un pesante furgone. Soprattutto Scirea incarnava pienamente la faccia pulita del calcio: come scrisse Brera dopo la morte del giocatore “Il povero Scirea era dolce e composto, di una moderazione tipica del grande artista. Non era difensore irresistibile né arcigno, era buono, ma completava il repertorio con sortite di esemplare tempestività, a volte erigendosi addirittura a match winner”. 

Il calcio però è stato anche segnato dai cosidetti poeti maledetti, come ad esempio Renato Cesarini (si, quello della Zona Cesarini: era solito segnare nei minuti di recupero) e Luis Monti (uno dei giocatori più violenti della storia, soprannominato “doble ancho”, ovvero “armadio a due ante”), ma soprattutto lui, George Best. Pochi anni prima gli inglesi avevano visto il ritiro di Stanley Matthews: centrocampista dello Stoke City, vinse il primo pallone d’oro della storia all’età di 41 anni e appese gli scarpini al chiodo a 50 anni compiuti. Insomma, un modello di vita e di sport. Appena si ritirò nel 1965, fece il suo ingresso nella storia il quinto Beatle: vinse tutto con la maglia del Manchester United, ma a 25 anni era già finito. E’ durato pochi anni, perchè poi è iniziata una lenta e inesorabile autodistruzione.

George Best con la maglia dei Red Devils

Alcuni, proprio come Best, hanno influenzato generazioni di calciofili persino nello stile: pensiamo a Omar Sivori, emblematico di un fenomeno calcistico che si riflette nel costume. Nel suo periodo alla Juventus tra i giovani che giocavano negli oratori e per le strade, c’era proprio l’uso di abbassarsi il calzettone come El Cabezòn. Era un vero e proprio provocatore, non certo un esempio positivo come il suo compagno John Charles. E’ lui stesso a raccontare un aneddotto che spiega bene che persona fosse Sivori: “Stavamo vincendo 3-0 con il Padova e la partita stava già finendo, quando l’arbitro ci concesse un rigore che i padovani contestarono vivacemente, nonostante non avesse influenza sul risultato finale. Vedendo la disperazione di Pin, il portiere, mi avvicinai e gli dissi: “Non preoccuparti, tanto lo tiro sulla sinistra”. Andai sul dischetto e, ovviamente, tirai sulla destra, segnando. Pin si arrabbiò come un matto, inseguendomi e insultandomi. Non me la perdonò mai. Lo incontrai nuovamente, un paio di anni dopo su una spiaggia, e lui ancora si arrabbiò. Inutilmente tentai di spiegargli che io avevo inteso la mia sinistra e non la sua. Non ci cascò e continuò a odiarmi“. Il suo compagno d’attacco era invece la correttezza in persona: un gigante buono che non aveva bisogno di dare spinte o gomitate, anzi, era lui che se le prendeva.

Juventus-Roma, tunnel

“Un grande giocatore vede autostrade dove altri solo sentieri”

Vujadin Boškov

Il 2016 s’è portato via anche Johan Cruijff, il calciatore che ha cambiato per sempre il calcio. Si dice che certi uomini mettano delle bandierine e scindano temporalmente in un prima e dopo l’arte a cui si legano. Il campione olandese è stato questo: ha rivoluzionato tutto con il suo calcio totale e la classe innata. Sull’artista del pallone per eccellenza sono stati spesi litri di inchiostro, ci affidiamo perciò ad un altro fuoriclasse, ma del giornalismo: il compianto Eduardo Galeano lo definiva “un magrolino elettrico, ai tempi delle giovanili dell’Ajax faceva tutto quello che gli chiedevano, mai quello che gli ordinavano“.

Ma la Spoon River del pallone comprende anche personaggi insospettabili, come ad esempio Concetto Lo Bello: è stato forse il più grande arbitro di tutti i tempi, anche se ovviamente aiutato dal fatto che a quei tempi la moviola non esisteva. Celebre la definizione di Indro Montanelli, che ogni tanto faceva qualche sortita nel mondo del calcio, sul direttore di gara siracusano : “Entra nel campo col passo del proprietario che perlustri il proprio podere. Se ogni tanto alza lo sguardo sugli spalti, è come se ve lo lasciasse cadere dall’alto“.

Lo Bello, Mazzola e Rivera prima di un derby

Ci sarebbero moltissimi altri personaggi da prendere in considerazione e approfondire: pensiamo a Giorgio Ferrini, grande mezzala e attaccabrighe d’eccellenza, oppure a quel pazzo di Chinaglia, che fu uno dei primi a protestare platealmente insultando Valcareggi mentre lo stava sostituendo nel match tra Haiti e Italia dei mondiali di Germania ’74. Ma non c’è Spoon River del pallone senza una poesia finale: in soccorso perciò arriva forse quello che è stato il vero filosofo del calcio, ossia Vujadin Boskov, morto non più tardi di due anni fa. Ecco una delle sue celebri frasi: “Gli allenatori sono come le gonne: un anno vanno di moda le mini, l’anno dopo le metti nell’armadio“. Avevi ragione Vujadin, però certe cose rimangono e non potranno mai essere dimenticate.