“Il mondo sta cambiando, la musica cambia”, Iggy Pop resta? Il docu-film del 2016 del regista Jim Jarmusch distribuito da Nexo Digital racconta la folgorante carriera degli Stooges e prova a cogliere il cuore della loro esperienza artistica e umana.
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_di Lorenzo Giannetti
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«Per girare una biopic sulla mia carriera credo che si dovrebbe assumere Lindsay Lohan. Mi assomiglia ed è la sola con la personalità che ci vuole. Potrebbero appiattirle le tette con lo scotch, e poi è stata in prigione all’età giusta, quindi penso che vada bene per la parte»
Così dichiarava qualche tempo un beffardo Iggy Pop, con la consueta faccia di bronzo, in merito ad una sua possibile biografia sul grande schermo. Per ora il biopic hollywoodiano con la “Mean Girl” non sembra essere in cantiere ma è arrivato il docu-film d’autore firmato da Jim Jarmusch, fan irriducibile degli Stooges e amico ormai di lungo corso dell’Iguana (ricordate la parte surreale che gli cucì addosso nel film cult “
Coffee & Sigarettes“?).
Sebbene la figura di Iggy Pop sia ragionevolmente la più ingombrante, Jarmusch non punta affatto al ritratto del singolo reduce, bensì all’affresco di una battaglia collettiva: quella di un manipolo di kids dei sobborghi di Detroit, contro i cliché del flower power, le convenzioni del rock e, beh, tutto il resto del mondo.
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Jarmusch non si discosta dalla sua poetica del quotidiano (in continuità anche con il recente “Paterson“, nelle sale cinematografiche solo fino a qualche settimana fa) nel raccontare una storia epica, grottesca ed iperbolica come quella degli Stooges ma quasi sottovoce, in maniera intima, senza mai cadere nella trappola del sensazionalismo. È forse questo il maggior pregio e contemporaneamente l’elemento più spiazzante di Gimme Danger: la volontà di leggere tra le righe, di elogiare senza mitizzare. E, in questo caso, di rispedire a casa deluso chi si aspettava l’ennesimo film sugli eccessi delle rockstar maledette.
Il regista riesce inoltre a non indulgere – o, almeno, a non indulgere troppo – sull’effetto nostalgia, sulla retromania più sterile, pur raccontando con evidente affetto quell’epoca di rivoluzioni copernicane per il rock’n’roll.
Da un talento visionario come Jarmusch, tuttavia, era lecito aspettarsi qualcosa in più nell’
alternare materiale d’archivio e interviste in presa diretta con sguardo austero, lucido e sincero? Diciamo che – pur senza picchi creativi davvero memorabili –
è proprio lo sguardo del regista a fare la differenza: rispetto allo stile dannatamente catchy di un collega come
Julien Temple – ormai un guru del documentario a tinte rock’n’roll – verrebbe da dire che quello di Jarmush è
un documentario atipico, poco teatrale e poco accondiscendente: né punk né glam, se vogliamo più… hardcore.
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“Scrivere una canzone? Non servono più di 25 parole. Voglio andare dritto al punto. E poi, beh, non mi sono mai sentito un Bob Dylan, cazzo!”
Il racconto del resto comincia in maniera molto dimessa, in quella che sembra essere una lavanderia casalinga: Jarmusch introduce “James Osterberg in arte Iggy Pop”, pronto a fare quattro chiacchiere sugli Stooges, presentati senza giri di parole come “la più influente rock band di sempre”. Iggy è in ciabatte, le stesse che attualmente sembra sfoggiare in ogni contesto, persino alla prima del film al Festival di Cannes, dove non ha resistito alla tentazione di esibirsi nell’ormai un po’ stucchevole repertorio di gestacci e smorfie. Ma – come emergerà anche nel corso del documentario – Iggy è così: un po’ satiro compiaciuto, un po’ bambino irriverente.
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Jarmusch predilige una aneddotica simbolica ad una biografia enciclopedica: sembra più propenso a mostrare l’illuminazione creativa della fase compositiva che portare avanti una disamina critica di dischi e canzoni.
Dalla noia pressurizzata della vita ad Ann Arbor (nella periferia della motorcity, dove il suono cacofonico dei macchinari industriali suggeriva il futuro motorik della band) al pellegrinare on the road per mezza America alla ricerca di stimoli musicali (l’onnivoro Iggy nutrì una determinante passione per la musica nera, evidente nel groove malsano della psichedelia degli Stooges). Dalle cene di mezzanotte a base di LSD con in sottofondo Harry Partch (!) alla teorie di composizione dadaista di Iggy (“Scrivere una canzone? Non servono più di 25 parole. Voglio andare dritto al punto. E poi, beh, non mi sono mai sentito un Bob Dylan, cazzo!”).
Dall’incontro con Nico (e relativa, comprensibile, sbandata dell’Iguana per la conturbante Musa dei Velvet Underground) a quello con John Cale (che produsse il loro disco d’esordio, ingabbiandone un po’ la viscerale anarchia che infatti verrà fuori nel più animalesco FunHouse).
Via via emergono con prepotenza dallo sfondo i comprimari di questa avventura: gli irriducibili fratelli Aschleton, il sax schizoide di Steve Mackay (“Puoi suonare tipo Mace Parker – il sassofonista di James Brown – sotto acidi?” pare gli chiese Iggy), gli occhi lucidi di Mike Watt nel parlare della reunion fuori tempo massimo degli Anni Zero (che comunque dava merda a metà delle band indie-punk in circolazione).
Questo zibaldone punk potrebbe andare avanti all’infinito, come il riff di I wanna be your dog.
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A colpire al cuore, tuttavia, è soprattutto la disarmante purezza e la verace anarchia di questi cani randagi cresciuti sulle macerie dell’Era dell’Acquario. La totale sovrapposizione tra la loro vita e la loro arte. La volontà di rifiutare ogni definizione e schieramento ma contemporaneamente di mettersi in gioco al 100%.
Si dichiaravano apolitici, come in balia di un nichilismo ebbro e dionisiaco, sempre coerente e privo di sovrastrutture. Vivevano come “real communist” condividendo senza riserve cibo e diritti d’autore (facendosi poi gabbare dai cavilli burocratici delle case discografiche) e guardando con una certa diffidenza persino al movimento militante delle White Panthers fondato dagli amici e padrini musicali MC5.
Gli Stooges non erano addomesticabili. Outsiders nel DNA. Prendere o lasciare.
La carriera folgorante di Iggy e soci finirà inevitabilmente per accartocciarsi su se stessa (coi corsari della motorcity piegati dagli eccessi, in depressione e down creativo), per poi ottenere la canonizzazione di rito e prendere definitivamente posto nel pantheon del rock’n’roll (beninteso: con il ritardo accumulato da una critica musicale troppo spesso miope). In mezzo non mancheranno gli exploit da solista di Iggy, il colpo di coda di dell’Iguana che, persa ogni prospettiva e ispirazione, troverà nuova linfa creativa grazie ad un deus ex machina d’eccezione: David Bowie. Ma questa è un’altra storia. Il racconto di Jarmusch si ferma prima, o meglio, non toglie la mano dal fuoco vivo di quei ragazzi selvaggi che portando all’estremo la psichedelia inventarono il punk, che partendo dal No Fun preconizzarono il No Future.
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Alla fine della proiezione viene in mente l’autobiografia – un po’ manifesto, un po’ memorabilia – che Iggy scrisse negli Anni Ottanta dal titolo sprezzante: “I need more”, (ne) voglio di più. Oggi, allora, Gimme Danger sembra chiudere un cerchio. Iggy è un salutista zen (ma soprattutto… è ancora vivo!) che non rinuncerà mai al topless. Dentro di lui batterà sempre un cuore pieno di napalm.
Dopo l’Apocalisse, gli Stooges sono leggenda. Ci hanno insegnato che rock’n’roll – in fondo – vuol dire affrontare il pericolo a viso aperto, non avere paura di percorrere altre strade, camminare da soli, uscire dalla comfort zone, rischiare tutto, cercare e distruggere: ora tocca a noi.
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Ringraziamo il Cinema Massimo di Torino:
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