In occasione della rassegna “In nome dell’amore” al Circolo dei lettori, abbiamo selezionato alcune delle nostre love story preferite, tra corteggiamenti serrati, relazioni complicate, tradimenti inevitabili ed erotismo.
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_ di Giulia Scabin
L’amore è un sentimento difficilmente definibile e dalle molteplici forme, dalla separazione alla tragedia, dalla devozione all’innocenza, dal ricordo alla ribellione. Eppure il cinema romantico tradizionale ne offre una visione spesso e volentieri statica e sterile, con melasse sentimentali dai risvolti prevedibili e assolutamente irreali. E per quanto la melassa (in piccole dosi) possa essere deliziosa, c’è anche un cinema che ha tentato, con maggiore o minore successo, di rappresentare tutte quelle forme dell’amore che troviamo nella realtà del quotidiano che ci circonda.
Ecco quindi dieci titoli alternativi da scoprire o riscoprire per raccontare tutte le forme dell’amore nel mondo reale.
Happy together (Wong Kar-wai, 1997)
Lai e Ho sono due giovani uomini di Hong Kong che, innamorati, decidono di emigrare in Argentina, in cerca di un futuro e “della cascata dipinta sulla loro lampada”. Ma lì qualcosa si crepa: le cose non dette, la rabbia e il rancore sono crepe insanabili nel loro rapporto, e tra litigi e tradimenti i due ragazzi si separano, per poi ritrovarsi ed allontanarsi ancora.
Intenso, aspro e spezzato, il racconto di Wong Kar-wai è, come la storia d’amore che narra, un intreccio convulso, ripetitivo e pieno di dolore, che tra riprese febbrilmente instabili, abbaglianti luci artificiali e colori dissonanti dipinge quella distanza e quell’incomprensione che si vanno a creare tra i due personaggi.
La recitazione dolorosamente intensa dei due attori protagonisti (in realtà divenuti famosi grazie al cinema d’azione) si unisce alla regia sempre estremamente attenta del regista cinese, dove nulla viene lasciato al caso, costruendo una storia d’amore alienata e alienante, accompagnata dalle note contrastanti di Happy Together.
Before midnight (Richard Linklater, 2013)
Dopo essersi rincontrati nove anni prima, Celine e Jesse vivono insieme e hanno due bambine, lui è diventato uno scrittore di successo, lei è in procinto di accettare un lavoro per il governo. La lontananza di Jess dal figlio avuto nel precedente matrimonio risveglia in lui i sensi di colpa, che portano le prime tensioni: lui vuole trasferirsi più vicino al figlio adolescente, lei non vuole abbandonare la sua vita.
Una manciata di scenari, pochissime pause, un unico lungo dialogo dove la parola è protagonista, in un racconto sui rapporti umani, l’amore, la famiglia, il restare insieme nonostante tutto. Come già nei precedenti Before Sunrise e Before Sunset, Linklater dipinge attraverso le straordinarie interpretazioni di Julie Delpy e Ethan Hawke uno dei racconti sull’amore più veri e onesti della storia del cinema, senza trucchi, senza diversivi e senza filtri.
Con una narrazione che avanza insieme al tempo, in una coincidenza tra reale e finzionale, i protagonisti si muovono inconsapevoli di essere osservati, in un’opera che racconta magistralmente il meglio dell’umanità senza nasconderne il peggio.
Romeo + Juliet di William Shakespeare (Baz Luhrmann, 1996)
È la storia d’amore più famosa di sempre, senza età e senza tempo, e Baz Luhrmann l’ha capito benissimo: testi e dialoghi della celebre tragedia sono riportati fedelmente in una rielaborazione postmoderna ambientata nella frenetica metropoli di Verona Beach, dove gli imperi d’affari degli anglosassoni protestanti Montecchi e degli ispanici cattolici Capuleti si sfidano a colpi di pistola. È attraverso il vetro di un acquario che avviene il primo fatidico incontro tra i due amanti, filtro deformante che veicola i loro sguardi e i loro ardori, fino a portarli al ben noto, e tragico, epilogo. Romeo + Juliet non è un semplice adattamento cinematografico: atmosfere psichedeliche e musica pop, violenza e iconografia pulp accompagnano i versi giambici shakespeariani in una contrapposizione continua tra amore e odio, alto e basso, bianco e nero, vita e morte. Luhrmann riaccende le fiamme di un amore che come il suo cinema non conosce i limiti dell’eccesso, raccontandoci, ancora una volta, la più grande storia d’amore di sempre. E come recita la speaker di un notiziario televisivo annunciando la morte dei due giovani amanti: mai ci fu storia di maggior dolore di quella di Giulietta e del suo amore.
Blue Valentine (Derek Cianfrance, 2010)
Nella camera di un motel a ore una coppia cerca di salvare un rapporto ormai alla deriva, fatto del ricordo di un amore ora spento, esasperazione e aspettative deluse.
I due protagonisti (interpretati da Ryan Gosling e Michelle Williams) alternano momenti di cauta sintonia ad altri di rabbia disperata, tra continui flashback che ci muovono costantemente tra passato e presente: così come la narrazione, anche la coppia continua a guardare al passato, rifiutando un presente infelice.
Non c’è lieto fine in questo dramma secco ma dal retrogusto dolce, di una tristezza straziante quanto profondamente vera.
Con una fotografia che parla più delle parole Cianfrance racconta con tenerezza, come da sottotitolo, “a love story”, non quella delle commedie sentimentali che finiscono con il giorno delle nozze, ma quella che comincia dopo, fino alla dolorosa e irrazionale caduta nel blackout finale.
Ecco l’impero dei sensi (Nagisa Oshima, 1976)
Con un approccio registico crudo e forte, spesso ai limiti del cattivo gusto, Oshima tenta con questa sua opera di approcciarsi a quella che è di fatto pornografia, nell’intento di darle una dignità filmica effettiva.
Il film, sullo sfondo della Tokyo degli anni 30, narra la relazione tra la cameriera Abe Sada e il proprietario della pensione presso cui lavora Kichizo Ishida, che partendo da un’attrazione reciproca, si evolve in un estasi dei sensi fino a cadere nel baratro erotico.
L’ossessivo consumarsi del gesto carnale porterà a conseguenze estreme, in un’opera in cui la passione fisica, il piacere sessuale, la trasgressione e la morte sono indissolubilmente legati, in una rappresentazione dell’enorme potere che i sensi possono esercitare sulla vita di due persone, fino a prenderne il sopravvento.
Una passione devastante in cui le categorie della vita quotidiana perdono significato, un amore doloroso e crudele come l’ossessione distruttiva dei sensi.
Only lovers left alive (Jim Jarmusch, 2013)
Adam e Eve sono pessimisti, oltremodo insoddisfatti e profondamente innamorati. Inoltre, sono vampiri.
E dopo avere attraversato secoli di storia insieme ai grandi protagonisti della musica, della scienza e della letteratura si trovano ora a convivere con il desolante degrado umano del mondo contemporaneo. E se i due amanti millenari (interpretati da Tilda Swinton e Tom Hiddleston) portano i nomi di Adamo ed Eva, non sembra neanche più esserci la promessa di un paradiso a cancellare la desolazione terrena. Ironico e cupo al tempo stesso, nichilista ma romantico, il film di Jarmusch dipinge una Detroit simbolo di un mondo spento, marcio e abbandonato, dove “tutto è finito”. Ma nonostante il disgusto per la decadenza di un mondo un tempo maestoso ora in putrefazione, i due vampiri rimangono in piedi, uniti in una profonda devozione reciproca e nella capacità di apprezzare quel poco che di buono resta, perché solo gli amanti sopravvivono.
Carol (Todd Haynes, 2015)
Nella New York dei primi anni 50, l’affascinante e irresistibile Carol, con una figlia piccola e un divorzio in corso, e la giovane, dolce e talentuosa Therese, si incontrano per caso, e non vorrebbero lasciarsi più. Ma come Carol prevedeva, il dolore le aspetta dietro l’angolo.
Haynes racconta un percorso di crescita e scoperta di sè attraverso l’altro, al di là dei generi, delle regole e delle convenzioni. Non si tratta tanto di un racconto sull’amore tra due donne quanto un racconto sull’amore tra due persone. Carol rappresenta magistralmente l’amore come un oggetto fragile e infrangibile allo stesso tempo, prezioso ma capace di sbocciare in qualsiasi luogo, delicato ma forte, riuscendo impeccabilmente a trasmettere la sensazione prima della logica, l’emozione prima del ragionamento: la totale innocenza dell’innamoramento.
Closer (Mike Nichols, 2004)
Dan e Alice, Anna e Larry: due coppie, quattro personaggi che si incrociano, si tradiscono, si mentono, per poi ritornare sui propri passi. Tratto dall’omonima opera teatrale e interpretato sul grande schermo da Natalie Portman, Clive Owen (candidati agli Oscar e premiati ai Golden Globe), Jude Law e Julia Roberts, Closer è un dramma sull’amore tradito, bugiardo, incostante e imprevedibile.
Mike Nichols, precedentemente spesso troppo incline ai buoni sentimenti, riacquista il giusto cinismo per rappresentare con amara onestà i rapporti sentimentali, in una sequenza a catena di incontri, flirt, bugie, tradimenti, gelosie e sesso, che evidenzia la leggerezza dei legami amorosi, e la debolezza umana nel saperli gestire.
Con la dolcissima Blower’s daughter di Damien Rice a fare da colonna sonora, il regista racconta il cinismo della società odierna e la sua ossessionante ricerca dell’innamoramento come parvenza di solidità, ma ci siamo disabituati alla routine, e tutto quello che ci resta sono un inizio e una fine.
Le conseguenze dell’amore (Paolo Sorrentino, 2004)
Titta Di Girolamo (Toni Servillo) è un uomo di mezza età che trascorre una vita grigia e statica in un albergo in Svizzera dove ricicla i soldi della mafia. Non da confidenza a nessuno, soffre d’insonnia, e da 24 anni, ogni mercoledì mattina alle 10:00, s’inietta una dose di eroina. Questa sua esistenza fatta di azioni rigidamente preordinate, comincia a scomporsi quando inizia a legare, e a provare sentimenti, per la giovane e gentile barista dell’albergo, Sofia.
Ma non si tratta di un film romantico, non in senso tradizionale almeno. Quella di Sorrentino non è una storia di passione e desideri, non sappiamo neanche se l’amore del solitario protagonista sia ricambiato, ma non ha minimamente importanza, perché quell’amore che Titta Di Girolamo ha intravisto, forse solo per un istante, basta a fargli mettere in discussione tutta la sua esistenza, spingendolo a ribellarsi alla sua condizione. In determinate situazioni, l’amore è un atto di rivoluzione, e le conseguenze non saranno indifferenti.
Basta che funzioni (Woody Allen, 2009)
New York. Boris Yelnikoff, sessantenne intellettuale scorbutico, cinico e solitario, cronicamente depresso e convinto dell’inutilità del tutto, si imbatte in Melody, giovane ragazza scappata dal Mississipi, dolce, bella, non particolarmente sveglia e profondamente ignorante. Contro ogni ragionevole aspettativa, i due si innamorano e si sposano.
Attorno ai due personaggi si crea un gustoso contorno di umanità: dalla madre di Melody che da moglie ignorante e sottomessa si trasforma in artista freak coinvolta in un menage à trois, al padre che dopo aver lasciato la moglie per un’altra donna riconosce la sua omosessualità, il film racconta l’imprevedibilità e le infinite possibilità della vita umana e dell’amore.
Un atipico Woody Allen, il cui parziale ottimismo ha gettato nel panico gli alleniani più rigidi, narra con ironia e cinismo come l’unica cosa importante in fondo sia cercare di esser felici nelle condizioni che ci vengono date, e se incontri la tua anima gemella atterrando su di lei mentre tentavi il suicidio buttandoti dal tuo palazzo non importa: basta che funzioni.
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