Nel cult di Alan Schneider intitolato “Film” si intrecciano i destini di due figure chiave del 900: Samuel Beckett e Buster Keaton. Il docu-film firmato da Lipman e presentato al Cinema Massimo di Torino racconta di quella sinergia fuori dall’ordinario che portò alla realizzazione di quella che alcuni definiscono “la più grande pellicola irlandese”.
di Pier Allegri – La serata di venerdì 10 febbraio al Cinema Massimo ha visto la premiere del docu-film di Ross Lipman, “Not-Film, seguito alla proiezione del film di Alan Schneider (soggetto e sceneggiatura di Samuel Beckett, padre del teatro dell’assurdo), “Film” con Buster Keaton.
Questa squisita collaborazione tra “Reading Bloom”, casa di produzione ed editoriale di documentari e film per il cinema d’ essay, e la “Milestone Cinematheque”, ha avuto come ospiti d’eccezione lo stesso Lipman, uno dei più famosi restauratori di pellicole al mondo (“Not-Film” è il suo primo lungometraggio da regista), Stella Dania di Reading Bloom e Letizia Gatti.
“Abbiamo avuto fortuna nei finanziamenti” ammette Ross Lipman:
“Questo progetto ha avuto la benedizione di alcune delle più importanti case di produzione per il cinema d’essay e per il restauro del mondo. Quando si parla di restauro veniamo coinvolti dal film, dalle sue idee, dalla discussione che ne può suscitare. D’altronde, il restauro non è una scienza esatta: questo è un mito abbastanza fastidioso. C’è anche un processo di scelta, un fattore umano da considerare. Questa è la base di partenza per il mio film.”
In una New York in cui vige un rigoroso silenzio, O (Object), un uomo senza volto, sfugge disperatamente allo sguardo indagatore e terrificante di una entità osservatrice anch’essa senza volto, E (Eye), l’occhio della macchina da presa, qui il gioco di parole fra Eye “Occhio” e I (Io). O teme ogni sguardo estraneo, dai passanti, agli animali fino agli occhi inquisitori degli oggetti, tutto per sfuggire alla consapevolezza del sè. Quando l’uomo crede di essere finalmente al sicuro da ogni occhio in una stanza sterile e vuota, si trova di colpo a faccia a faccia col suo inseguitore: sé stesso. O e E sono la stessa persona. Lo sguardo dell’Io su se stesso è inalienabile. «Esse est percipi. Soppressa ogni percezione estranea, animale, umana, divina, la percezione di sé continua ad esistere.
Il tentativo di non essere, nella fuga da ogni percezione estranea, si vanifica di fronte all’ineluttabilità della percezione di sé»: così Samuel Beckett, drammaturgo chiave del novecento, definisce il cuore e il fine dell’azione nel suo unico contributo alla Settima Arte, “Film”, inteso come nuda pellicola, tramite riflettente che cattura la realtà attraverso immagini. I natali di questo progetto sono molteplici e tutti importanti: Beckett rivelò all’amico Alan Schneider, regista di buona parte delle sue produzioni teatrali ed eccezionalmente regista di “Film”, il suo turbamento nei confronti della macchina cinematografica (ricordiamo che Beckett evitava in ogni maniera possibile l’essere registrato, fotografato o filmato) e al contempo la sua fascinazione con essa. L’evento scatenante, il suo rapporto e uso del celebre filosofo suo conterraneo, George Berkeley, e del suo assunto filosofico esse est percipi (essere è essere percepiti). Essere è il dramma che perseguita Beckett, ma ciò è assolutamente inevitabile: anche levata ogni percezione estranea, non si può sfuggire alla percezione di sè stessi. O è destinato a fallire e E a vincere.
“La prima volta che ho visto Film non sapevo cosa stavo vedendo, ma sono rimasta in ogni caso estremamente colpita” afferma Dania, e continua: “Ciò che forse colpisce di più questo corto è la sua commovente modernità: nell’epoca dei social e degli smartphone veniamo catturati di continuo. E questo forse non è un bene.”
“Notfilm” il bel cine-saggio di Ross Lipman, racconta la faticosa genesi del progetto in maniera totalmente esaustiva: dai problemi di budget, il rapporto di Beckett col suo editore e produttore del film Barney Rosset (Beckett fu uno dei tanti autori che portò al grande pubblico, tra gli altri Ginsberg, Burroughs e Henry Miller), la rovinosa ricerca di un attore protagonista (la scelta ricadrà su Buster Keaton, genio del cinema muto ormai al tramonto), le difficoltà di cooperazione fra l’idea di Beckett e l’inesperienza della crew, il tutto alternato da preziose e bellissime interviste ai protagonisti della Grove (coraggiosa casa editrice di Rosset) e dell’universo beckettiano: Rosset stesso (scomparso nel 2012), Steve Schapiro, fotografo di scena del film, Billie Whitelaw, attrice feticcia di Beckett, e molti altri.
Il sofisticato mondo di Beckett, conosciuto in parte attraverso le sue pièce teatrali, il forte legame con il cinema, le lettere personali dello scrittore irlandese sono meticolosamente ricostruite da Lipman in un magnifico “Kino essay”, come ama definirlo Lipman stesso, sull’arte di fare cinema, capace di giustificare la fascinazione dei cineasti di tutto il mondo nei confronti di un “Film” magnificamente moderno e travolgente, definito da alcuni la più grande pellicola irlandese.
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