Intervista a tutto campo con un atipico “cantautore post-rock”, tra figure mitologiche e chitarre distorte. Spoiler: sì, lo ha fatto apposta.
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_di Enrico Viarengo
“Orfeo l’ha fatto apposta” è il disco d’esordio di Pietro Berselli. Bresciano trasferitosi a Padova per studio, una barba folta e un nome da cantautore, uscito un po’ all’improvviso in questo inizio 2017. Attenzione: non immaginatevi chitarre acustiche, racconti di notti magiche durante il viaggio interrail Spagna 2012, strizzate d’occhio generazionali, riferimenti alla toponomastica peninsulare o video con belle fanciulle che bevono prosecco dalla bottiglia. Mettete da parte per un attimo i Calcutta, Motta e Contessa che imperversano nella barra laterale di Spotify.
Pietro Berselli, classe 1990, si mette in gioco utilizzando un altro linguaggio, confezionando un microcosmo metaforico – quello del mito di Orfeo – e insabbiando l’esigenza di un racconto personale fatto di sconfitte, fallimenti e rinascite sotto strati di rimandi e citazioni intellettuali. Lo fa scegliendo binari sonori che – bisogna ammetterlo – sono altrettanto coraggiosi: quelli delle trame post-rock, delle chitarre distorte e dei feedback naturali di valvole utilizzate a dovere. Non a caso, dietro al progetto si cela una band di cinque elementi e una produzione artistica degna di nota: Tommaso Mantelli (Captain Mantell e Il Teatro degli Orrori).
Berselli è la mente colta che dipinge un paesaggio emozionale e criptico dirigendo una formazione rock funzionale e ben scelta. Il suo lavoro è un disco maturo e denso, equilibrato nel suo alternare spoken words a divagazioni strumentali senza risultare tronfio o eccessivamente autoreferenziale.
Un’altra recente uscita discografica, quella dei Gomma – giovanissimi cantori di un disagio epidermico fatto di leggings bucati e comprensibili infatuazioni della Nouvelle Vague – ha “acchiappato” un pubblico di cuori pulsanti e malinconici, mettendo in moto la macchina ben oliata dell’hype. Pietro Berselli, a suo modo, potrebbe (e dovrebbe) far di più, perché le sue parole, calibrate e universali, scavano ancora più a fondo nell’anima di quegli stessi giovani ascoltatori e vanno oltre.
“Orfeo l’ha fatto apposta” è un disco importante perché non soffre, a differenza di tanti prodotti indie degli ultimi anni, di una “targetizzazione” anagrafica. Berselli, a meno di 30 anni, può tranquillamente vantare quella maturità artistica di cui vanno fieri autori rock come Paolo Benvegnù, Umberto Maria Giardini, Pierpaolo Capovilla.
Il limite, semmai, è quello culturale: la colpa, sia chiaro, non dovrebbe essere la scrittura audace del narratore, ma la poca propensione di critica e pubblico a leggere tra le righe, ad accettare il fatto che la metafora non sia sinonimo di presunzione. Chissà se la stampa musicale italiana potrà invaghirsi di questa nuova voce, lodarla e contribuire alla sua diffusione? Chissà se l’hype potrà premiare questa piccola gemma uscita da una piccola etichetta (Dischi Sotterranei, un’altra realtà che meriterebbe un’analisi approfondita)?
Chi è Pietro Berselli e come suona “Orfeo l’ha fatto apposta”, al di là di tutte le possibili riflessioni, potete iniziare a scoprirlo in questa intervista. Noi non possiamo che ribadire che si tratta di un gran bel disco e siamo certi che potrà meritarsi uno spazio nelle classifiche di fine anno.
Dovessi spendere un solo aggettivo per descrivere il tuo disco d’esordio, utilizzerei la parola “colto”. Hai studiato lettere moderne e beni culturali; “Orfeo l’ha fatto apposta” vuole essere una metafora moderna del mito di Orfeo e Euridice e il video del singolo “Niobe” è zeppo di simboli legati alla mitologia. Con queste premesse il tuo lavoro potrebbe risultare pretenzioso, cosa che non è affatto: le undici canzoni scorrono che è un piacere e tra le citazioni alte emerge anche tanta personalità. Quindi la domanda: chi è davvero Pietro Berselli e, Orfeo o non Orfeo, cos’ha da raccontare?
“Racconto quello che mi succede meglio che posso e il mito di Orfeo ed Euridice, in questo caso, è una maschera dietro la quale presento le mie esperienze. È un disco che parla d’amore, di amori finiti, lontani o inconsistenti, il mito resta nel titolo. Questo disco nasce, come molte altre cose, con un intento auto terapeutico. Alcune cose fanno meno male una volta messe su carta.”
Il disco si apre con il ‘benvenuto a te’ di “Niobe” e continua a mettere l’ascoltatore in gioco con “Diluire”, come un ripetuto sguardo in macchina cinematografico che cerca l’attenzione dell’ascoltatore. Ho anche notato con piacere che rispondi con garbo a tutti quelli che ti scrivono sui social o commentano i tuoi video. Quanto è importante l’approvazione degli ascoltatori? Si fa musica per se stessi o per gli altri?
“Trovo che aprire un dialogo diretto con gli ascoltatori sia molto importante. In questo modo si ha la possibilità di capire come il proprio lavoro venga percepito all’esterno della cerchia di conoscenze strette e molte volte mi sono stupito dei vari paragoni con altri musicisti che mi hanno fatto ma evidentemente quei richiami esistono e le persone li percepiscono, come se qualcosa di inconscio fosse trapelato nelle mie canzoni in fase di scrittura. Lo trovo affascinante. L’approvazione degli ascoltatori poi fa sempre piacere ci mancherebbe ma non deve essere il fine della scrittura, d’altro canto la canzone nasce da una necessità interiore ma di fatto vive quando c’è qualcuno che la ascolta.”
“Debole – Senza Regole”, “Brindisi”, “Mediterraneo” e “Quanti Anni hai” sono canzoni già registrate e contenute nel tuo precedente EP del 2015 che troviamo anche in Orfeo, a distanza di quasi tre anni. Spesso chi scrive musica tende a considerare “vecchie” quelle canzoni appena registrate, tu invece hai difeso e riproposto questi quattro pezzi, ri-arrangiati, ma molto simili alla versione originale.
“Vero, ho deciso di inserire queste canzoni nel disco in quanto fanno tutte parte dello stesso periodo. In ognuna c’è qualcosa dell’altra, erano destinate a esistere nello stesso disco. Mi piace far rivivere le canzoni, senza costringerle ad un unico arrangiamento, si potrebbe dire che mi piace ristrutturarle.”
Ritornando a “Diluire” – che mi sembra una “break-up song” multipla e anche parecchio incazzata -, è innegabile il rimando al Teatro degli Orrori, che in qualche modo figurano all’interno dell’album grazie alla produzione artistica di Tommaso Mantelli. Com’è andata in studio?
“Sicuramente c’è una grande influenza, è innegabile, ma considero il recitato uno stilema fruibile, non un marchio registrato. “Diluire” è la canzone della mia frustrazione, non la definirei una “breakup song” perché di fatto non c’è stato alcun break up! Solo la realizzazione che stavo prendendo una strada che mi avrebbe reso molto infelice se non avessi cambiato rotta al più presto. Accettare il fatto di rimanere soli, di essersi resi ridicoli più volte può creare una certa dose di frustrazione. Questa è l’energia di diluire, ammettere di aver fallito.
In studio è andato tutto liscio, Tommaso Mantelli è riuscito a rendere le canzoni nel miglior modo possibile, ha messo del suo negli arrangiamenti e ha suonato tutte le tastiere, c’era un’ottima energia!”
“Orfeo l’ha fatto apposta” è sicuramente un disco molto scuro. è un disco pieno di chitarre elettriche sature e trattenute, pronte a dare il la a deflagrazioni strumentali che dal vivo mi immagino possano essere la gioia dei fan del post-rock. L’abito del cantautore, nell’immaginario comune con chitarra acustica e coppola in testa, dovrebbe starti stretto.
“Vero anche questo, nelle mie canzoni la musica è importante quanto le parole e viceversa. Ci sono canzoni che non hanno bisogno di parole, diventerebbero stucchevoli, e molte volte lasciar parlare la musica risulta essere la scelta migliore. L’etichetta di cantautore mi va stretta, lo ammetto, ma non è un problema, la concezione di cantautorato sta cambiando decisamente, spero vivamente che un progetto come questo, dove strumentale e cantato coesistono, possa essere accolto con naturalezza.”
“Il tecnigrafo è la mia Madelaine”. Parliamone.
“È una frase criptica lo ammetto, ma lo scopo è proprio questo, generare curiosità e porre domande, e io sono sempre ben felice di parlarne. La Madelaine è diventata grazie a Proust il simbolo del ricordo dell’infanzia, quel sapore, quel profumo, quell’oggetto che scatena una serie di ricordi antichi e potenti di quando eravamo ancora innocenti e al sicuro. I miei genitori lavorano entrambi nel campo del design e dell’architettura, sono figlio unico e sono cresciuto giocando sotto i tecnigrafi del loro studio. Il tecnigrafo è per me oggetto “scatenatore” di antichi e bellissimi ricordi.”
Pietro Berselli, bresciano ma padovano d’adozione. Dove si sta meglio? Al release party di Padova il Mame era praticamente sold-out; quanto basta, credo, per considerarla una nuova casa. E Brescia, invece?
“Sicuramente Padova è una seconda casa, e anche molto accogliente! La serata al MAME Club è stata bellissima, il locale era pieno e c’erano tutti, dai primissimi fan fino a gente che ci ha conosciuto quella sera stessa, c’era energia! Ora stanno arrivando molte date anche in Lombardia e passeremo anche da Brescia, per me è una sensazione quantomeno strana, torno dopo anni nella mia città natale come una persona nuova, lei uguale, io sono cambiato.”
Di recente hai avuto modo di aprire i concerti di Garbage e Sophia con la tua band. Com’è andata?
“Aprire ai Garbage e ai Sophia è stato un onore enorme per tutti noi. Con questi ultimi è stato davvero piacevole, abbiamo anche scambiato due parole a tavola e sentire dal vivo il loro ultimo disco mi dato una carica pazzesca! Con i Garbage c’era una sorta di timore reverenziale da parte nostra, fanno parte di quelle band che vedevamo su Mtv da ragazzini e sapere che ci avevano scelti in una rosa di musicisti è stato un fulmine e ciel sereno, non sapevo neanche di essere in ballo per questa cosa , è stata letteralmente una sorpresa! Aver avuto la possibilità di salire su un palco del genere e suonare davanti a 1500 persone è qualcosa di meraviglioso.”
Ho visto su facebook una tua foto insieme ai Pop X, una di quelle band-fenomeno che mi pare avere un approccio artistico completamente opposto al tuo. Mi spiego: nonostante le derive post-rock, il tuo progetto resta ancorato al “formato canzone”, nobilitato da una scrittura matura che può incontrare il gusto di un pubblico trasversale. I Pop X invece viaggiano in una direzione anti-musicale, dando vita a un teatro anarchico fatto di eccessi e cattivo gusto. C’è qualcosa in comune tra di voi, a parte la sterile etichetta “indie”?
“Conosco di fama Pop x da anni e ricordo di essere stato affascinato dal video di “Io Centro Con I Missili” e ritengo che sia un’opera di tutto rispetto, c’è un disagio meraviglioso in tutto questo, senza contare l’estetica unica che hanno creato. Penso che nell’immaginario musicale/artistico che c’è ora in Italia debba esserci spazio per chiunque mostri un’estetica originale. È la cosa più difficile.
Certo loro viaggiano in una direzione artisticamente contraria alla mia, innegabile ma non per questo in qualche modo peggiore. Hanno una forza comunicativa incredibile, quella glielo invidio. È quello che tento di fare io sul palco: cantando le mie canzoni nella maniera più sincera possibile, tento di comunicare una sensazione e spero che qualcuno riesca a coglierla.”
Qual è la tua “guilty pleasure” musicale che in qualche modo ti ha influenzato e che, imbarazzi a parte, non rinnegheresti mai?
“Ho macinato il primo disco di Lana del Rey! Videogames, Born to Die, Summertime Sadness, meraviglia!”
Normalmente le interviste si chiudono con la banale domanda “progetti per il futuro?”; A me piacerebbe sapere invece come Pietro Berselli, classe 1990, sia arrivato fin qui, a “nascondere la rima”, per citare una tua canzone.
“Suono da quando ho 14 anni e provo a scrivere canzoni da quando ne ho 16. Ricordo che in adolescenza avevo sviluppato una sorta di adorazione divina per tre artisti: Fabrizio de André, Mark Oliver Everett degli Eels e i Tv on the Radio. Queste tre sonorità mi hanno formato e plasmato e ammetto di aver fatto tanta fatica a staccarmene quando ho iniziato a provare a scrivere qualcosa di più serio. Ho dovuto recuperare moltissimi “ascolti persi” dopo i vent’anni per colpa di questa mia adorazione.”
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Illustrazione di copertina a cura di Andy McFly