Quando la realtà virtuale suggerisce una quarta dimensione

La rivolta subliminale delle macchine è già in atto? Questione di “punti di vista”…

_ Matteo Billia

Alcuni casi dal passato

Nel 1884 fu pubblicato “Flatland“, un romanzo proto-fantascientifico scritto da Edwin Abbott Abbott, che narra l’incontro tra un ipotetico abitante di un mondo a due dimensioni (un quadrato) e un abitante di un mondo a tre dimensioni (una sfera). Nel 1908 apparvero su “Comoedia“, rivista francese letteraria e artistica, alcuni racconti di Gaston de Pawlowski che rappresentavano un’anticipazione del romanzo “Voyage au pays de la quatrième dimension” dello stesso autore, e che avrebbero costituito, con notevoli variazioni, il corpus del romanzo. Ciò che hanno in comune questi due romanzi, neanche molto distanti nel tempo, è che, metaforicamente in un caso, esplicitamente nell’altro, viene posta la tesi dell’esistenza di una dimensione invisibile ai nostri occhi.

Uno dei capitoli più affascinanti del Voyage è intitolato “La rivolta delle macchine“, nel quale le macchine mettono in atto un’insurrezione con l’intenzione di assoggettare gli esseri umani. Tema molto caro alla letteratura fantascientifica di molti anni dopo, è ancora attuale nel cinema degli ultimi anni.

Tra il 1915 e il 1923 Duchamp realizza “La sposa messa a nudo dai suoi scapoli”, opera meglio conosciuta come il “Grande vetro“, ricco di indizi stranianti (gli oggetti meccanici incomprensibili, e i due diversi punti di vista) che vogliono ricondurci all’esistenza di una quarta dimensione che non possiamo vedere. L’influenza che il romanzo di Pawloski ha avuto nella concezione di quest’opera è stata esplicitamente dichiarata dall’artista. Il vetro posto sopra la tela è come un’interfaccia, che può alla lontana ricordare la cardboard di Google, o più immediatamente i monitor dei nostri computer.

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Così come gli abitanti di “Flatland (il romanzo sopracitato) vedono diversi questi simboli, senza ricondurli, come potremmo fare noi, a proiezioni bidimensionali di uno stesso oggetto (un quadrato) che ruota in uno spazio tridimensionale, così noi assistiamo a oggetti fenomenici che appartengono invece ad un unico oggetto/idea nella quarta dimensione.

I casi fin qui citati attirano l’attenzione su alcuni aspetti fondamentali: l’esistenza di una quarta dimensione (da non identificare con il tempo), e il rapporto con il formato bidimensionale tipico dell’arte figurativa/pittorica, quella forma d’arte in cui più di ogni altra nel passato gli artisti si sono preoccupati di rappresentare realtà “altre” o contigue alla nostra (basti pensare al trompe-loeil).

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La maturazione di queste tematiche non ha ancora portato ad una visione precisa dell’argomento, tant’è che, gli stessi problemi relativi al supporto, sussistono nel mondo del cinema (basti pensare ai tentativi di rendere più immersiva l’esperienza dello spettatore tramite gli occhialini 3D), e l’avanguardia tecnologica da un bel po’ di anni punta alla creazione di simulazioni immersive e credibili. Non a caso, uno dei campi in cui è stato reso possibile far confluire questi sforzi, è quello videoludico. Ma, non soffermandoci troppo su un discorso che quasi tutti noi conosciamo, ossia della maggior immersività resa possibile dalle scelte del giocatore, dalla possibilità di influenzare realmente la narrazione e della responsabilizzazione del gamer, (che in molti casi non può più tornare sulle decisioni prese, come nel caso della narrativa applicata a un titolo mainstream come Spec-Ops: The line), pochi sviluppatori di videogiochi hanno realmente riflettuto sulla dinamica delle dimensioni, senza vederla come aspetto cardinale per il progresso verso una maggiore immersività. Non solo: pochi sono stati in grado di affrontare un meta-discorso sul medium, qual è la dinamica tra le varie dimensioni (2D e 3D). Pochi hanno saputo concepire un discorso sulle simbologie e potenzialità del virtuale stesso, dando sempre più per scontata la sua esistenza, e vedendo questa come una componente inscindibile della nostra quotidianità. Ma per fortuna, nell’ambito dell’avanguardia, qualcuno ha realmente l’interesse nel cambiare le regole del gioco, qualcosa è accaduto.

Cambiare le regole del gioco

Nel 2012 è uscito Fez, videogioco prodotto dalla casa indipendetnte Polytron Corporation (USA). Gomez, protagonista del mondo bidimensionale di questo titolo astratto e nostalgico (da aggiungere alla lista del nostro articolo sui titoli lo-fi), ha il compito di ricondurre a “normalità” il mondo in cui vive, messo in pericolo dalla comparsa di un esaedro “alieno”. Riceve così un cappellino rosso che gli permette di vedere e sfruttare la terza dimensione, per superare i vari ostacoli e rompicapo del gioco, nel tentativo di raccogliere tutti gli esaedri rimasti. Sul rapporto tra 2D a 3D si basa totalità dei livelli di gioco (tutto ciò si era già visto in Super PaperMario), e cambiando prospettiva, ostacoli che prima sembravano insormontabili, si rivelano facilmente risolvibili. Ma oltre ad essere elemento innovativo e ponte di collegamento tra le dimensioni, la struttura di gioco è l’applicazione (forse inconsapevole) degli stessi ragionamenti che hanno portato in parte alla scrittura di “Flatland” e “Voyage au pays de la quatrième dimension“, e che hanno influenzato il “Grande vetro” di Duchamp.

«La realtà virtuale è, in definitiva, il primo piede messo dall’altra parte dello schermo»

Caratteristica fondamentale di questo approccio, è il dare per scontata la fruizione del prodotto tramite un supporto bidimensionale rappresentato dall’interfaccia: la tela (o meglio, il vetro) per Duchamp , e lo schermo per il videogiocatore degli anni 2000.

La bidimensionalità del supporto e i suoi confini, eliminano quelle funzioni che entrano in gioco nell’osservazione del mondo reale: la costanza della forma e la costanza della dimensione. Funzioni messe in atto dal nostro cervello grazie alla natura binoculare della vista (per chi non lo sapesse), e che ci permettono di attribuire misure realistiche a oggetti che si trovano a una certa distanza da noi, anche se distorti “prospetticamente”.

Per questo motivo la Virtual Reality rappresenta un’innovazione che si serve di una visione stereoscopica (come gran parte di voi saprà, tramite l’Oculus Rift), e che, oltre ad innovare decisamente l’esperienza informatica e ludica, ha ultimamente segnato il futuro delle arti visive. E’ infatti uscito su Steam, nell’aprile di quest’anno, il software Tilt Brush. Armati di Oculus Rift e pennello digitale, il software ci permette di dare forma a vere e proprie pennellate direzionate nelle tre dimensioni, consentendoci di creare opere che sono fruibili senza un formato prestabilito. Un altro degli aspetti direttamente collegati a questa nuova fruizione della pittura digitale è la concezione stessa dell’allestimento di mostre d’arte 3D e di altri eventi educativi/multimediali. Gli spazi espositivi, infatti, possono essere allestiti direttamente in digitale, offrendo a ciascun visitatore una realtà virtuale da “sovrapporre” a quella volutamente spoglia dell’ambiente fisico. Le opere inoltre possono essere animate con lo stesso software, annullando i confini tra i vari momenti di produzione, e permettendo la creazione di opere vive e interattive.

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I limiti imposti dal supporto e dal formato sono stati annullati. Il discorso riportato alla luce da Fez (l’unico esempio mainstream, forse), e tentato dagli occhialini 3D (invenzione che risale al ‘900), ha raggiunto una nuova realizzazione, forse (supporti a parte) la sua definitiva.

La realtà virtuale sta diventando sempre più una quasi perfetta imitazione del reale, tanto che, Elon Musk, fondatore di aziende incredibili (SpaceX e Tesla), sostiene la teoria secondo la quale la realtà che stiamo vivendo potrebbe benissimo essere una simulazione messa in atto da intelligenze superiori.

La realtà virtuale è, in definitiva, il primo piede messo dall’altra parte dello schermo. Non è esattamente il compimento di ciò che percepiva Pawlowski (e non solo lui), ma è la creazione di un iperuranio informatico, nel quale la quarta dimensione è costituita dal codice stesso.

Come profetizzava Baudrillard (ma in realtà descrivendo una realtà già in atto nel suo tempo), la rappresentazione e la simulazione del reale si stanno sostituendo al reale stesso. I discorsi sulla realtà stanno diventando numerosi e hyper-reali, dando forma alla psicosi collettiva delle profezie che si autoavverano.

I rapporti e le corrispondenze si stanno ribaltando: le produzioni culturali non hanno più come referente la realtà, ma stanno diventando esse stesse il referente del reale. E così le macchine del “Voyage au pays de la quatrième dimension” di Pawlowski stanno cambiando l’uomo a propria immagine, esattamente come l’uomo faceva con esse. Il nuovo iperuranio di Platone, la quarta dimensione del reale, è diventata riconoscibile tra le righe di un codice informatico?

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Illustrazione a cura dell’autore dell’articolo: Matteo Billia