Una ragazza cieca scomparsa per 7 lunghi anni che torna a casa dopo aver riacquistato la vista e con un bagaglio pieno di misteri. Si parla già moltissimo del nuovo atipico drama sci-fi di Netflix, ma i pareri non sono per niente concordi…
di Enrico Viarengo – Metacritic, popolare aggregatore di recensioni sul web, evidenzia un trend di ricezione di critica e pubblico schizofrenico: una media di 61/100, una montagna russa fatta di 100 pieni e altrettanti voti decisamente sotto la sufficienza. The OA è una serie che divide, questo è chiaro. Ma tra le schiere di entusiasti e di detrattori si è palesato un terzo polo, quello degli utenti Netflix che “non ci ho capito nulla ma mi ha catturato fino alla fine”, oppure “non so se mi sia piaciuta o meno, ma ho pianto come un vitello”.
Negli ultimi anni abbiamo assistito all’aumento di prodotti cinematografici e televisivi di difficile comprensione: finali criptici e/o aperti a libera interpretazione che generano interminabili chiacchiere da ufficio (ma la trottola di Inception?) o supercazzole destabilizzanti che incollano allo schermo, salvo poi generare il rimpianto di non essere uscito a bere una birra con gli amici il venerdì sera.
Sono passati 15 anni da Donnie Darko e più di 10 dalla messa in onda di Lost. Entrambi i prodotti, a loro modo, recuperavano i temi e l’estetica del genere fantascientifico rendendoli accessibili a un pubblico eterogeneo, non per forza “Sci-Fi addicted”. Così dimensioni parallele, continuum spazio-temporali, paradossi scientifici e metafore filosofiche sono entrate nella casa dell’utente medio, rivestite da una patina di normalità. Ecco quindi che per salvare il mondo devi prima salvare la cheerleader, e se manca una cheerleader potrai comunque seguire con passione le vicende di personaggi ordinari come i tuoi vicini di casa, coinvolti inesorabilmente in dinamiche che vanno ben oltre i campi dello scibile umano. Oltretutto le molteplici possibilità di lettura di queste narrazioni non lasciano solo grande spazio all’immaginazione, ma riconducono quasi sempre a una soluzione verosimile, dando la possibilità allo spettatore più cinico, magari beffato sul finale, di fare ritorno alla tanto amata dimensione del reale.
Insomma, film e serie tv moderne hanno reso digeribili gli elementi fantastici e surreali conquistando lo spettatore più restio: basti pensare alla diffusione globale di Game of Thrones, una saga fantasy certamente più leggera di tante altre, resa appetibile alle masse grazie a una messa in scena meno “nerd” del solito e più empatica. Tutto questo processo ha portato a uno stimolante cross-over di generi che ha abituato lo spettatore a stare con i piedi in più scarpe e, per quanto riguarda il filone fantascienza, ad aspettarsi una certa dose di follia fatta ad hoc per essere rinnegata a posteriori. Ma quando l’immaginazione del regista non rispetta il patto sancito con lo spettatore, ecco che quest’ultimo vacilla, si perde. E se non riesce ad aggrapparsi a qualche certezza e a godersi lo spettacolo, se non riesce a entrare quel mondo, allora rimane sulla poltrona e indossa l’abito del critico esperto, che di questi tempi non è cosa rara.
Ecco, per tornare a The OA: sono in molti a sostenere che non tutto torni e che il livello di licenza poetica dei due creatori sia eccessivo; ma la critica “troppi buchi di sceneggiatura” regge fino a un certo punto. Perché i buchi di sceneggiatura sono quasi inevitabili per mantenere un certo ritmo, per alimentare curiosità e immaginazione e per dosare nel migliore dei modi l’empatia per i personaggi. Immaginatevi una rivisitazione di E.T – L’extra-terrestre in versione didascalica, in cui tutte le reazioni del buffo alieno vengono spiegate con dovizia di particolari e secondo una logica: indubbiamente crollerebbe l’effetto magico della narrazione.
Prendiamo un altro recente prodotto di Netflix che ha avuto consensi unanimi di critica: Stranger Things “acchiappa” per i curatissimi rimandi agli anni 80 e per l’incredibile prova dei giovani attori più che per un funzionale susseguirsi di eventi surreali. Il “fantastico” è un elemento fondamentale, certo, ma anche e soprattutto un terreno strutturato, in diversi casi prevedibile e allo stesso tempo pieno di mistero sul quale si gioca una partita secondo regole cinematografiche ben precise.
The OA, messa a confronto con Stranger Things, viaggia in una direzione diametralmente opposta e supera molti di quei codici a cui siamo tutti abituati: per queste ragioni spiazza o fa storcere il naso.
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A differenza dei normali prodotti televisivi di punta (vedi lo stesso Stranger Things per Netflix o il recente Westworld della HBO), The OA non ha avuto lo stesso trattamento promozionale. Si può dire che non abbia avuto una vera e propria promozione, escludendo un trailer a pochi giorni di distanza dall’uscita integrale delle 8 puntate. Uscita, per giunta, nell’ultimo mese di questo 2016, non certo una grande strategia per poter rientrare nelle varie classifiche che proliferano nelle ultime settimane dell’anno. Della serie si è saputo veramente pochissimo prima del 16 dicembre; eppure la protagonista e co-autrice Brit Marling e il regista Zal Batmanglij ci hanno lavorato dal 2012 e Netflix non avrà sicuramente preso sotto gamba il progetto. Forse non tutti hanno notato la cura visiva della pagina Instagram, una griglia unica di 132 immagini che compongono un puzzle non meno esaustivo dello stesso trailer video. Promozione snobbata, quindi, o forse una strategia di marketing alternativa?
Altra novità fondamentale: le puntate hanno tutte diversa durata (dai 30 minuti all’ora abbondante) e sono, sostanzialmente, delle non-puntate. The OA è un grande racconto che rifugge, nella sua complessità, il ritmo episodico auto-conclusivo delle serie TV old school, ma anche quello più recente e fastidioso del colpo di scena finale al quarantesimo minuto. Sia chiaro che attesa e suspense non sono estranee al prodotto, in ogni caso si potrebbe mettere in pausa e proseguire la visione in un qualsiasi momento senza minare una struttura precisa. The OA è un fiume di immagini. La sua sorgente è limpida, chiara, regolare. ma con l’allargarsi delle sponde la trama si infittisce e le acque si confondono con quelle degli affluenti, per cui fermare la corrente del racconto in punti prestabiliti è cosa difficile e superflua. Non è un caso che i titoli di testa partano ben oltre la metà dell’episodio pilota, in un crescendo di colori e suoni che sanciscono la fine di un prologo necessario e l’inizio di una meta-narrazione. Perdersi è facile, è vero. Annoiarsi o gettare la spugna, se si ha un minimo di curiosità per il diverso, è impossibile.
I due piani della narrazione – quello del racconto di Prairie, sull’infanzia e sugli anni di prigionia, e quello del presente – si intrecciano e si sovrappongano nella creazione di un messaggio che va oltre l’aderenza alla realtà. Prescindendo dal messaggio e lasciando che lo spettatore faccia i conti con se stesso alla ricerca di una più o meno appagante epifania, è doveroso capire chi veicoli questo messaggio.
Prairie, The OA, è un “broken angel”, una “weirdo” difficile da decifrare. Brit Marling riesce a interpretare al meglio e senza enfasi un personaggio scomodo, fragile, consumato, forse troppo complesso e a tratti irritante.
A fianco di questa anti-eroina emergono delle figure ancora più oppresse e emarginate, disilluse, rassegnate e fondamentalmente tristi: una cornice non casuale. Molti hanno menzionato l’interpretazione non particolarmente brillante degli attori, ma la forza di questi personaggi sta proprio in una recitazione ben calibrata. I drammi che si consumano nelle poche ore di The OA sono tali da poterla considerare, sulla carta, la serie più forte a livello emotivo degli ultimi anni; ma il taglio da film indipendente, lo sguardo misurato del regista e i continui stacchi temporali fanno sì che lo spettatore assista, ma non prenda parte alle tragedie in atto. Non si può che restare a guardare, attoniti, quello che la sceneggiatura ha previsto per ogni personaggio; come una Sharon Van Etten che improvvisamente si mette a cantare, creando un corto circuito fenomenale per il fan della cantautrice – notevole, a proposito, la colonna sonora curata dal fratello del regista nonché membro dei Vampire Weekend.
C’è tanto, tantissimo all’interno di queste 8 puntate. Troppo, chiaramente, per poter stabilire cosa funzioni alla perfezione e cosa invece crei delle barriere o un senso di irritazione. Batmanglij prova a osare anche dal punto di vista visivo, con la ripresa verticale da cellulare dell’incipit e gli inserti “cosmici” di un mondo tra la vita e la morte. Piacciano o meno le scelte stilistiche, la fotografia è oggettivamente un valore aggiunto e i toni freddi, nordici di tutte le puntate si avvicinano al reale più di tanti altri prodotti televisivi saturi. L’america raffigurata in OA è simile a quella rurale e grigia di un’altra piccola grande serie, Rectify, e ricorda alcune opere di Edward Hopper: quelle case bianche immerse nella silenziosa campagna statunitense e circondate dal nulla dipinto con sfumature di pochi, essenziali, colori.
Da molti sarà ricordata come un polpettone new age, un tentativo hipster/cattolico fallito, un esercizio di stile vuoto. Bisogna ammettere però che il grande contenitore Netflix – e la catena di produzione seriale più in generale – aveva bisogno di un prodotto che saltasse lo steccato. A fianco dell’intrattenimento tout court dei supereroi Marvel e dell’approfondimento critico dei numerosi documentari originali, la presenza di The OA nobilita il catalogo dell’azienda americana.
Le critiche non devono scoraggiare la coppia di giovani autori già al lavoro insieme con Sound of my Voice (2011) e The East (2013). La loro creatura è un piccolo, vibrante e surreale ecosistema di poesia e emozioni. Imperfetto – come tutte le cose belle, del resto – ma indubbiamente diverso, nuovo e coraggioso. The OA è un film indipendente da Sundance che fa capolino nel prosperoso regno delle serie TV, un film di 8 ore che non nasconde la propria autorialità e si discosta persino dalle produzioni di genere affine. Per amarlo, se lo si vuole, basta farsi meno domande.