Parmigiano Reggiano: la saga millenaria del “King of cheeses”

La degustazione a tema di Eataly Torino diventa una vera e propria lectio magistralis sul Re dei formaggi italiani. Ma, soprattutto, un invito a conoscere e difendere l’identità di un patrimonio nazionale. 

di Lorenzo Giannetti — “I primi a dover essere ringraziati sono i monaci”: esordisce così Simone Ficarelli – responsabile delle attività internazionali per il Consorzio del Formaggio Parmigiano Reggiano – quasi a volerci traghettare sin dall’inizio nella dimensione mi(s)tica e nella prospettiva millenaria che contraddistingue la produzione del Parmigiano. Ficarelli sarà il deus ex machina del nostro percorso alla (ri)scoperta di uno dei prodotti nostrani più iconici e copiati nel mondo. Un viaggio che parte proprio dai monasteri benedettini e cistercensi, dove, nel Medioevo, viene messa a punto la ricetta di un formaggio che – nato con la prerogativa di conservarsi nel tempo – ha alimentato un culto immortale.
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Le degustazioni di Eataly, va premesso, non sono semplici momenti conviviali. Si tratta di veri e propri laboratori, di preziose antologie condensate in bignami di circa 2 ore, che vanno oltre al semplice ventaglio di assaggi con note a margine. La lezione che si affronta nell’Aula 2 del “ateneo gastronomico” di Lingotto non fa accezione. Il Dott. Ficarelli, abile e coinvolgente oratore mosso da un evidente e sincero trasporto per la materia trattata, illustra con la chiarezza dell’esposizione e l’immediatezza degli esempi pratici, le caratteristiche e l’evoluzione del prodotto attraverso una disamina che spazia dagli aspetti più tecnici e “agresti” (territorio, ingredienti, lavorazione) a quelli più sociologici (vendite, marketing, percezione all’estero) – passando ovviamente per la cerimonia dell’assaggio.
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La degustazione procede seguendo il ciclo del’invecchiamento del Parmigiano, nel climax delle stagionature: dal best seller d’autore che troviamo sulle nostre tavole (siamo a quota 26 mesi) all’eccezionalità del “campione” di 96 mesi (decisamente più raro). Quattro assaggi, un abisso dall’incipit all’epilogo. Esperienza propedeutica a comprendere la valenza dell’ingrediente “non scritto” (più che segreto) del Parmigiano: il tempo, la pazienza. Eccolo, il quarto ingrediente che si aggiunge alla sacra triade latte, sale e caglio.
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All’austera semplicità della ricetta del Parmigiano che si ricollega Eugenio Signoroni nell’introdurci al secondo protagonista della serata: la birra. Il criterio di selezione prevede birre semplici, con pochi ingredienti di base, ma pronte a reggere il confronto con il guru dei formaggi. Un abbinamento forse spiazzante, sicuramente ardito e anche per questo ancor più interessante. Del resto, come evidenzia lo stesso Signoroni – docente nei corsi per degustatori di birra e curatore della Guida delle Birre d’Italia di Slow Food Editor – se il collegamento più immediato nell’immaginario collettivo resta indubbiamente quello col vino (la cui presenza sulle nostre tavole affonda le radici nella tradizione nazional-popolare), le affinità tra Parmigiano e birra – specie se ben abbinati – sono tutte da scoprire.
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Mentre caglio e luppolo danzano sul palato, la birra bionda Nursia – prodotta a Norcia – offre l’occasione per snocciolare alcuni esempi di solidarietà che hanno abbracciato il Centro Italia dopo la tragedia del terremoto, laddove vaccari e caseifici si sono ritrovati a fronteggiare una situazione desolante anche grazie all’aiuto di donazioni, vendite in blocco e acquisti online. Il “cult” di 24 mesi non ha bisogno di presentazioni: è la pepita d’oro che arricchisce da sempre le tavole dei buongustai. La birra umbra palesa un’impostazione belga; quasi non dimostra i suoi 6 gradi: va giù che è un piacere e rivela una nota al miele sul finale.
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Il 48 mesi possiede una fragranza più volatile del precedente, una scarsa persistenza, ma offre un arcobaleno di sfumature che variano da palato a palato: c’è chi sente un quid pepato, chi evidenzia un sentore d’agrumi e miele, ma in chiusura salta fuori anche una leggera “tostatura” che richiama quasi l’intensità del tabacco. Un amaro appena suggerito e ben spalleggiato dalla Buxus del Birrificio San Paolo di Airasca.
Anche il 60 mesi sembra portare con sé una tendenza all’affumicatura ed è accompagnato dagli 8 gradi della Triple, prodotta dal Birrificio Maltus Faber di Genova: un tipo di birra molto “asciutta” nel finale, al netto di una componente fruttata molto evidente. In bilico tra lo sbalzo d’umore di Parmigiano nel quale l’età inizia a reclamare maggiore attenzione e una birra “bastarda” che invoglia a terminare prima del tempo il bicchiere, si tratta forse dell’abbinamento più rischioso: “Un po’ come mettere due galletti nello stesso pollaio” commenteranno gli esperti. Prima di ribadire più volte che si gareggia comunque nell’Olimpo dei formaggi.
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L’ultimo step – l’agognato 96 mesi – è all’altezza delle aspettative, anche grazie all’abbinamento con l’atipica Geisha, birra ambrata prodotta dal Birrificio Troll, che si avvicina più ad un ottimo superalcolico da sorseggiare meditando che allo stereotipico della bevanda dissetante.
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Volge così al termine un percorso sensoriale e didattico nell’universo del Parmigiano, degnamente (e, forse, inaspettatamente) sublimato da un luppolo in veste di co-protagonista, abile nel mettere in mostra le sue qualità senza rubare la scena alla star della serata.
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C’è però il tempo di soffermarsi su qualche dato, rispondere a qualche domanda, mettere in evidenza alcuni collegamenti. Il “derby” col Grana Padano viene affrontato con diplomazia: “Siamo di fronte a due eccellenze, ma il Parmigiano è l’unico che non aggiunge conservanti ad una ricetta che continua imperterrita a mantenersi artigianale”. L’ignobile questione del “Parmesan” (sorta di mix surrogato spacciato all’estero come il DOP che non è) viene invece tratteggiata con la stizza che merita.
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Ma c’è soprattutto la voglia di difendere l’identità di un patrimonio nazionale. Se, infatti, il Parmigiano Reggiano è il frutto olistico della somma delle peculiarità di un territorio e della tradizione del “saper fare”, ora più che mai, occorre lavorare insieme per preservare questa “magia”. Come? In questo senso ci viene incontro un parallelo con vino, che non compreremmo (quasi) mai senza visionare l’etichetta: questa dovrebbe essere la prassi anche per le forme di formaggio, troppo spesso oggetto di mistificazione. Stessa cosa vale per le birre, s’intende. L’innovazione insomma non deve investire la produzione, quanto la comunicazione del prodotto.
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Non è per piaggeria dunque se è proprio il Dott. Ficarelli a sottolineare come in questa pratica “Eataly sia da manuale”, dal momento che al banco formaggi si presta un’attenzione certosina a etichette e classificazioni.
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Non resta che approfondire tutto nel volume “Guida al Parmigiano Reggiano – Storia, tipologie, degustazione” di Angelo Surrusca (Slow Food Editore, Settembre 2016, in omaggio con la degustazione), vera e propria Bibbia del Parmigiano, che passa in rassegna uno per uno tutti i caseifici coinvolti nella produzione.
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Un’ultima curiosità: qualche mese fa, nell’estate del 2015, il Parmigiano si è ritrovato a dover commentare un altro bizzarro “abbinamento”, quello con PornHub.  In uno spot commerciale, il sito a luci rosse si era autoproclamato “come il Parmigiano rispetto agli altri formaggi”, ovvero al top nel proprio settore. Il paragone “lussurioso” era decisamente troppo ardito per il Consorzio, che ha – giustamente – fatto bannare la pubblicità, goliardica ma troppo sopra le righe. A fine serata allora, pensare che “Imparare e godere”  sia il gaudente motto che accompagna le ultime rassegne targate Eataly ci strappa un sorriso malizioso: ma è (l’unica) colpa della birra.
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