The Body: metallo e metamorfosi

L’avanguardia post-metal del duo americano che disco dopo disco sembra riuscire sempre a trovare nuove nicchie oscure da esplorare. 

The Body – “No One Deserves Happiness” 

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di Luca Richiardi  –  Il duo di Providence, Rhode Island – tra l’altro città natale e amatissima di H.P. Lovecraft – è l’avanguardia assoluta nel ‘decostruttivismo’ della musica estrema, ormai spintasi oltre le costrizioni del genere; extreme metal, harsh noise, doom, sludge, tutto è ammesso nel tritacarne della post-modernità che senza remore vuole definitivamente entrare in contatto con i fondali più oscuri dell’abisso umano. Nonostante la copertina rosa che pare richiamare un altro recente esperimento in ‘estremismo sonoro’ – l’ottimo “Sunbather” dei Deafheaven, che porta all’estremo la nuova tendenza di black metal positivo ed estatico – l’ultimo lavoro dei The Body non intende imporsi come una deviazione dalla cupezza e dal malessere che hanno contraddistinto fino ad oggi la loro poetica, così come quello delle band con cui hanno fruttuosamente collaborato in passato: pensiamo al dark ambient di The Haxan Cloak, allo sludge metal dei Thou o al grindcore dei Full of Hell.

La tendenza è, insomma, chiara e continua, e pare quasi legittimo dare per scontato un senso di ‘déjà senti’ a questo punto della loro carriera; e invece è strabiliante constatare come i The Body riescano a trovare nuove nicchie oscure di malessere da esplorare, nuovi mostri da esorcizzare, e una incredibile bellezza negli orrori dell’esistenza. ‘No one deserves happiness’ è un mostro che divora generi e tendenze musicali – dal doom al pop anni ’80 – e ne sputa i corpi maciullati, impietosamente, con intenzionalità e precisione ammirabili. Si parte dai cori angelici dell’Assembly of Light Choir che aprono l’album e ritornano in diversi momenti, e si passa attraverso le danze elettroniche di brani come ‘Two Snakes’ e ‘Adamah’, quest’ultimo con la partecipazione di Maralie Armstrong degli Humanbeast, per poi scendere nella disperazione più cupa e dissonante negli ultimi brani. ‘No one deserves happiness’ è un’opera universale come il dolore; ma, al contempo, la sua velenosa purezza potrebbe tenere a distanza molti neofiti della band. Il monito nietzscheano richiederebbe cautela a chi osserva troppo a lungo nell’abisso: ma in queste malevole profondità sonore vale la pena perdersi per trovare, forse, per qualcuno, un senso quasi religioso ed estatico di purificazione dalla sofferenza.